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L’ospite

2018
Titolo Originale:
The Little Stranger
REGIA:
Lenny Abrahamson
CAST:
Ruth Wilson (Caroline Ayres)
Domhnall Gleeson (Dottor Faraday)
Charlotte Rampling (Mrs. Ayres)

Il nostro giudizio

L’ospite è un film del 2018, diretto da Lenny Abrahamson.

L’ospite (The Little Stranger) è un tornito esercizio stilistico. Grandi interpretazioni, ottima fotografia, montaggio essenziale ma nemmeno un grammo dei 21 di cui parlava Iñárritu in quel film sopravvalutato che voi ben conoscete. L’interpretazione di Faraday (un bravissimo Domhnall Gleeson che sembra un incrocio tra Buster Keaton e un giovane Donald Sutherland con un’infiammazione della cistifellea) è così tesa da far presagire chissà quali risvolti clamorosi. Il dottorino di campagna va alla conquista della famiglia più prestigiosa del paese e vi si avvicina con aria discreta che però tradisce una strana smania latente. Forse è mosso da arrivismo bieco, magari pazzia vendicatrice per qualche torto immaginario subito da bambino? Che poi L’ospite non è una melassa gessosa di quasi due ore. Il film ogni tanto guizza, all’improvviso ci pugna la faccia, come un diligente boxer di Eton; quel tanto sufficiente a tenerci desti e sperare in un decisivo twist malsano e riscattatore. Al riguardo bisognerà avvertire il pubblico più sensibile alla violenza sugli animali, che un cane farà una brutta fine.

Per sommi capi il film di Abrahamson ricorda quasi il nostro Avati più tormentato e romantico. In certi momenti si può quasi immaginare che sia una delle trasferte estere gloomy-stile del nostro emiliano. Ma il regista irlandese non sa neanche chi sia l’autore di Zeder e Impiegati, quindi figurarsi se possiamo parlare di influenze consce. E nemmeno la scrittrice Sarah Waters, dal cui romanzo L’ospite è tratto, temiamo sia avvezza al cinema nostrano. In fin dei conti L’ospite vorrebbe forse essere una ghost story di quelle in punta di piedi, dove non si capisce bene chi sia più spettrale, se i vivi o i presunti spiriti infestanti. La storia in sé ha quell’incedere stregato da casa nevrotica Jacksoniana (nel senso di Shirley) ma, sebbene le manifestazioni paranormali si verifichino, di tanto in tanto, e un sentore di olezzo sepolcrale divampi un po’ in tutti gli sguardi pressuranti dei personaggi, non è questa la strada che Abrahamson vuole farci imboccare. Non è il genere. La vera via da lui scelta sta nel dramma psicologico al salnitro, dove le fuggevoli carezze che il dottor Faraday rivolge alla casa appaiono assai più sensoriali e consapevoli di quelle impacciate e violente con cui tenta di prendere Caroline (Ruth Wilson) in macchina, in una notte di borghese follia. Il dottore sembra volere qualcosa che trascende le sottane della figlia ed ereditiera di casa Ayres. Il fratello sfigurato Roderick (Will Poulter), reso folle dalla guerra, sostiene che il dottore sappia e senta la cattiveria della magione. Eppure non siamo a Hill House, qui di infestato, se c’è qualcosa, è tutto nella testa del medico stesso.

È come se a un certo punto tutto il reticolo di temi e questioni imbastite da Abrahamson non trovasse l’equilibrio sperato. Il regista non vuole raccontare semplicemente una storia di spettri, (o meglio, lui sente di fare anche quello, in un certo senso) bensì anelerebbe a ben altro. E il risultato è che alla fine non riesce nemmeno in ciò che mette più per assunto. Casa antica e grande, famiglia tormentata, figlio pazzo, rumori misteriosi e un cane nero: come minimo il pubblico sarà terrorizzato. Ma un paio di ectoplasmi! Questi elementi non funzionano da soli se non c’è una buona direzione orchestrale che li faccia suonare. Sono lì, tutti ai piedi della storia, assieme ad altri set narrativi, un po’ montati e un po’ lasciati in terra con il libretto delle istruzioni a prender polvere. Insomma, L’ospite, per dirla con un’immagine: è un mobile molto raffinato e pieno di funzionalità, che però non è stato assemblato nemmeno per la metà.