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La macchia della morte

1971
Titolo Originale:
The Mephisto Waltz
REGIA:
Paul Wendkos
CAST:
Alan Alda
Jacqueline Bisset
Barbara Parkins

Il nostro giudizio

La macchia della morte è un film del 1971, diretto da Paul  Wendkos

Più di qualcuno confonderà nel ricordo La macchia della morte (The Mephisto Waltz, 1971) con Crash l’idolo del Male, perché anche lì un grosso cane nero e satanico è parte della storia. Ma rivedendo ora il film di Paul Wendkos prodotto dalla Fox, si alza la nebbia di antiche visioni e diventa chiaro che, a parità di molossi demoniaci, rispetto al film di Charlie Band La macchia della morte sta su un altro pianeta, proprio in un’altra dimensione, da dove saetta un brillio cupo e cattivo. Il contesto è quello luciferino-complottista che dopo Rosemary’s Baby furono soprattutto i film televisivi americani a praticare, con risultati raramente spregevoli (La figlia del Diavolo, di Jeannot Szwarc, ad esempio). Vi si racconta, infatti, di un mediocre pianista, ammogliato e con prole, Myles Clarkson (Alan Alda), la cui fortuna comincia nel momento in cui entra in contatto con un famoso concertista affiliato al culto di Lucifero (Curd Jürgens). Alla morte di costui, infatti, Myles erediterà per vie sataniche la sua arte e il suo talento…

La macchia della morte non è un tv-movie, anzi possiede la particolarità di essere stato l’unico film prodotto per le sale nel 1970 dalla Twenty Century Fox, reduce da terribili “bagni di sangue” al botteghino. Tuttavia, lo stile – quadrato,  lineare, scorrevolissimo – lo eguaglia ai migliori film-tv americani del periodo, essendo la filosofia di Wendkos quella di un veterano (oltre cento regie) del piccolo schermo. Piana la forma, sì, ma con dentro un contenuto parecchio “selvaggio”, che prende le mosse da un romanzo di Fred Mustrad Stewart e diventa sceneggiatura nelle mani di Ben Maddow (che scrisse Giungla d’asfalto). I livelli di lettura di una vicenda alla cui base c’è la trasmigrazione dell’anima e della personalità da un corpo a un altro, grazie al Diavolo e con l’aiuto di un liquido azzurraceo e del sinistro Libro di Calles, potrebbero essere ampi e interessanti – a cominciare dall’ambiguità della filosofia di fondo che gravita dalle parti delle dottrine di Crowley. Ma anche limitandosi al suo valore apparente, La macchia della morte rivela la natura di un piccolo capolavoro: il Signore delle Tenebre, convitato in maschera nei baccanali dell’alta società di Beverly Hills, nume silente di funerali celebrati in suo nome, oppure lieve brezza che si trasforma in figura umana all’acme di un rito arcano, è sempre protagonista di ierofanie genuinamente angosciose.

E colpisce come – senza mostrare quasi nulla – Wendkos saturi l’atmosfera con l’aroma di una sensualità morbosa e feroce. Che rappresenta, in fondo, il motore di tutto quel che accade in La macchia della morte, al di là e forse più dei malefici patteggiamenti con il “vecchio Jack”. I due stregoni protagonisti, Curd Jürgens e Barbara Parkins, padre e figlia incestuosi, in una sequenza degna di memoria si slinguano con passione rara sotto gli occhi di Jacqueline Bisset, sbigottita ma presto partecipe anch’essa di questo vortice dionisiaco: tant’è che, nonostante una figlia avvelenata e uccisa dai cultori del Diavolo (in una straordinaria sequenza onirica), la donna si risolve a scendere a patti col Malefico e a gabbare gi avversari con le loro stesse armi. Solo e soltanto per continuare a godere delle prodigiose virtù amatorie del marito Alan Alda, che – peraltro – nemmeno è più tale se non nel corpo. Un grande ditirambo, in fondo, alla totale libertà dei sensi e del sesso