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La fortezza

1983
Titolo Originale:
The Keep
REGIA:
Michael Mann
CAST:
Scott Glenn (Glaeken)
Jürgen Prochnow (Woermann)
Gabriel Byrne (Kaempffer)

Il nostro giudizio

La fortezza è un film del 1983, diretto da Michael Mann

Un film che è un totale fallimento commerciale, una distesa di macerie da cui però, negli anni sono spuntati tre fiori di inestinguibile bellezza. Il primo è che si tratta di un lavoro in costume con una colonna sonora modernissima. Vedere i carri armati tedeschi avanzare su un tappeto di tastiere pop o i corpi di un uomo e una donna nudi che fanno sesso da seduti come in uno spot anni ’80 sull’Aids oggi testimonia la mancata addomesticazione nel tempo di La fortezza. Il soldato che corre incontro alla croce luminosa, il suo corpo stagliato contro una specie di porta di luce a cui si avvicina sprofondando nel fumo da concerto rock (mentre i Tangerine Dream “spippettano” con i sintetizzatori) è profondamente sbagliato sul piano della verosimiglianza storica ma capace di misurarsi con il linguaggio allora fresco e incontrollabile dei videoclip di Russell Mulcahy. In Mann c’è questo crocevia tra l’avvenerismo dell’estetica anni ’80, così effimera e audace e la perpetrazione della scuola dei durissimi di Sam Peckinpah, specie nell’uso del rallenty, oltre che per la violenza spettacolarizzata; la commistione forzata tra suoni moderni e scenario storico ben rappresentano questo binomio stilistico.

Il secondo fiore è che La fortezza  mescola due generi, guerra e horror, senza che l’uno fagociti l’altro. A ben guardare, questo equilibrio è evidente in tanti aspetti, a partire dallo scenario: il villaggio romeno immerso nella foresta, così nebbioso da omaggiare le vecchie pellicole Hammer e allo stesso tempo asfissiante e desolato come le comunità tribali del Vietnam di De Palma o Stone. Il dualismo tra il rappresentante della Wehrmacht, il capitano Woermann (Jürgen Prochnow), e l’SS Kaempffer (Gabriel Byrne) è basato sul crollo delle illusioni nella Germania del primo e l’inossidabile fede in Hitler per il secondo in un momento fatale della Storia del Terzo Reich: la ritirata dalla Russia. Un conflitto che si svolge in parallelo sul piano teologico e scientifico è quello tra il prete ortodosso padre Mihail Fonescu (Robert Prosky) e il Professor Cuza (Ian McKellen). Il primo crede in Dio, il secondo no, ma è pronto a riporre la sua fede in un essere diabolico, a patto che gli offra dei benefici.

Il demone che infesta La fortezza si chiama Molasar (Michael Carter) ed è un antichissimo mago intrappolato in una struttura costruita non per tener fuori i nemici ma per imprigionare lui stesso. Molasar potrebbe essere un alleato dei nazi contro Russi e Inglesi ma ha bisogno di un complice puro di cuore che porti fuori il sigillo e questi, sfortunatamente per i tedeschi, è un acerrimo antinazista, quindi il mostro, berlusconiano opportunista, fa le veci del Golem, almeno all’inizio. Poi si comporta come Dio con Abramo, quando chiede a Cuza di uccidere la figlia Eva. Il vecchio ebreo ateo resta deluso e lo pianta in asso. Il terzo fiore è il più bello di tutti: Byrne che dalla nebbia vede emergere una massa di corpi bruciati (questa scena sarà involontariamente citata al contrario da Benigni ne La vita è bella). Il terribile ufficiale SS lancia un urlo stridulo, da donnicciola, e fatica a tenersi in piedi. Una reazione insolita per chi ne deve aver visti tanti di corpi accatastati e carbonizzati; solo che non erano uomini ma ebrei, feccia, mentre quelli sono i cadaveri dei soldati tedeschi e quindi uomini veri, massacrati come ebrei. Basterebbe questo a far tacere tutti gli stolti che si aggrappano al ridicolo make-up del mostro, la situazione del ghiaccio secco sfuggita di mano allo scenografo e le luci sparate quasi come razzi di segnalazione dal direttore della fotografia.