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I sopravvissuti della città morta

1984
Titolo Originale:
I sopravvissuti della città morta
REGIA:
Anthony M. Dawson [Antonio Margheriti]
CAST:
David Warbeck (Rick Spear)
John Steiner (Lord Dean)
Susie Sudlow (Carol)

Il nostro giudizio

I sopravvissuti della città morta è un film del, diretto da Antonio Margheriti

Quando vidi per la prima volta I sopravvissuti della città morta restai con l’amaro in bocca: troppo evidente la differenza coi coevi americani, anche per uno spettatore poco scafato com’ero all’epoca. Poi mi accorsi che era un film italiano, e, in seguito, che era un film di Antonio Margheriti e iniziai a realizzare cosa volesse significare. Quando, poi, vidi altri film di Margheriti, lo inquadrai finalmente nell’ottica più obiettiva possibile: era un film-clone, una copia anastatica con difetti di stampa, una derivazione, una rielaborazione in scala di un originale americano. Probabilmente gli anni Ottanta sono stati il periodo in cui la tendenza del cinema di genere italiano ad essere appendice artigianale non autorizzata di prototipi d’oltreoceano o meglio, produttrice seriale di filoni e sottogeneri sempre più imbastarditi, si è fatta più intensa e nello stesso tempo più critica. S’allargava il gap tecnologico tra industrie cinematografiche un tempo quasi sovrapponibili e l’arma della disperazione diventava l’ingegno; chi quest’ingegno l’aveva, rallentava il lento riflusso verso la macchina della morte televisiva, chi ne difettava raggiungeva ben presto l’oblio. Di necessità veniva fatta virtù e Margheriti arrivava da una doppia produzione filippina con Fuga dall’arcipelago maledetto e I cacciatori del cobra d’oro: produzione Gi.Co., che sta per Gianfranco Couyoumdjian, connotati di punta quelli di David Warbeck. Dunque guerra ed avventura ovverosia, in quel preciso periodo storico, I guerrieri della palude silenziosa e I predatori dell’arca perduta. Perché non perseverare?

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Fuori dai giochi Couyoumdjian, resta Warbeck a protagonizzare, fortemente voluto dopo i film succitati ed il feroce L’ultimo cacciatore, così come il segaligno John Steiner, presente anche nel Cobra d’oro; e poi via dalle Filippine e benvenuti in Turchia, già battuta da Margheriti per il fantasy post-apocalittico Il mondo di Yor, di  un paio d’anni prima. A questo punto basta inoculare su di un organismo-soggetto di Gianni Paolucci, abbastanza esile e malaticcio, i germi patogeni del filone avventuroso che vagavano nell’etere: un protagonista che sia fascinoso, colto ed abbastanza abile, una compagna all’altezza (Susie Sudlow, direttamente dai fotoromanzi Lancio), un committente con carisma (John Steiner), un antagonista (poco) valido, qualche spalla che aiuti a sdrammatizzare (Luciano Pigozzi, why not?), un obiettivo più o meno irraggiungibile, per sfornare un simil Indy che ha avuto persino l’ardire di ritrovarsi in sala prima dell’uscita di Indiana Jones e il tempio maledetto, di cui ricalca atmosfere e sintassi proprio nell’ultima parte, la migliore, la più viva e margheritiana. Un sussulto d’orgoglio italico si era già comunque avuto quando il buon Antonio, con una manciata di modellini, un treno in corsa, edifici ricostruiti in scala, riusciva a girare un discreto minutaggio di inseguimento d’auto a inizio film, ma, se è vero com’è vero che il cinema margheritiano è una faccenda concreta di illusioni concordate e trucchi che si guardano col cuore e non con la ragione, la parte migliore che vale da sola tutta la visione risulta proprio quella del crollo del Tempio secretato da un’enorme Porta d’oro.

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Un crollo innescato dalla solita imprudenza dei fanatici di turno (stavolta una setta orientale devota al Dio-Demone Gilgamesh, il cui scettro è il Sacro Graal di tutta la questione, sebbene ebrei e nazisti aleggiano incorporei come presenza topica del filone), che rischiano di seppellire tutta la banda dei “buoni occidentali”, nello scontro di civiltà messo su per il giusto utilizzo del potentissimo attrezzo, sotto colonnati posticci e deliranti duelli corpo a corpo. E si, perchè la ragion d’essere di un film avventuroso italiano, di Margheriti come di Lamberto Bava, come di Castellari, Martino o Deodato, è il sostenere dignitosamente l’avvento degli effetti speciali di nuova generazione che, in mancanza di fondi adeguati, si traduce in questo caso in un montaggio alternato di scene con gli attori, con l’appoggio di luci colorate e fumi posticci, e scene di colonnati in cartapesta che si accasciano uno sull’altro, dando la sensazione di un continuum il più verosimile possibile, nonostante l’eccessiva rigidità di Warbeck e l’inconsistenza plateale del gruppuscolo di nemici. Che poi, anche a livello di sceneggiatura, si va avanti a colpi di “Che Allah ti mummifichi!” o “Tu hai un dattero al posto del cervello”, salvo raggiungere vette sublimi quando il protagonista, istruito sul da farsi, si lascia scappare un magnifico “Per questo lavoro andava bene Roger Moore”…