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The house of the devil

2009
Titolo Originale:
The house of the devil
CAST:
Jocelin Donahue
Tom Noonan
Mary Woronov

Il nostro giudizio

Un film non perfetto ma assai notevole, affettuoso omaggio ad un decennio cinematografico fecondo e memorabile per il genere horror. The house of the devil ci racconta di Samantha e della sua avventura maledetta come baby sitter.

“Negli anni ’80, oltre il 70 % degli americani adulti credeva nell’esistenza di culti satanici cruenti.
Il restante 30% giustificava la mancanza di prove concrete attribuendola a insabbiature governative.
Ciò che segue è basato su eventi veri e non spiegati….”

Con queste parole si apre The house of the devil, pellicola del 2009 firmata dallo statunitense Ti West (e prodotta, tra gli altri, dal regista indipendente Larry Fessenden), già autore di titoli come The Roost (2005) e, successivamente, del deludente Cabin Fever 2. Un disclaimer volutamente provocatorio e azzardato, che chiarisce immediatamente la tematica del film ed il tipo di approccio scelto per trattarla. La cifra stilistica è evidente fin dai titoli di testa, che portano immediatamente lo spettatore a credere di trovarsi alle prese con un film realmente girato negli anni ’80, per lo stile di montaggio, la bellissima fotografia (ad opera di Eliot Rockett), la titolazione, le musiche. L’intera pellicola, girata in 16 millimetri, ricostruisce quasi alla perfezione l’ambientazione eighties (se si eccettua qualche piccola e perdonabile imprecisione in alcuni dettagli), il che contribuisce a dare un senso di realismo non comune e a far immergere completamente chi guarda nella storia che si ha di fronte.

Una trama semplice, lineare, attorno alla quale il film viene comunque costruito ad arte: la giovane studentessa universitaria Samantha (la brava ed efficace Jocelin Donahue, perfetta per il personaggio), esasperata da una compagna di stanza per lei poco sopportabile, decide di prendere in affitto un’appartamento (la cui proprietaria è interpretata da Dee Wallace, attrice nota nel decennio dell’ottozero), il che la mette nella condizione di aver bisogno di denaro, ed in fretta. Provvidenziale dunque un annuncio nel campus dove si cerca una baby sitter (e la “s” di sitter ha il simbolo del dollaro, questione di appetibilità): tutto si presenta palesemente ambiguo fin dall’inizio, gli autori dell’annuncio sono evasivi, il luogo di lavoro troppo fuori mano. Ciò non spaventa Samantha, che accetta l’incarico, nonostante venga più volte messa in guardia dall’amica Megan (Greta Gerwig), che la accompagna nella sperduta dimora degli Ulman.

L’ eccessivamente gentile Mr Ulman ha il volto di Tom Noonan, il killer “Fatina dei Denti” del magnifico Manhunter di Michael Mann (1986), prima trasposizione filmica de Il Delitto Della Terza Luna di Thomas Harris, più noto come Red Dragon. Volto dunque già poco rassicurante per lo spettatore, come viscida e ambigua è sua moglie (interpretata da Mary Woronov), nel suo atteggiamento verso Samantha, nelle sue inopportune allusioni a sfondo sessuale. Megan viene allontanata e la presunta reale natura dell’incarico di baby sitting è svelata: Samantha non dovrà badare ad un pargolo, bensì all’anziana madre della Signora Ulman (personaggio fisicamente assente per tutto il film). Dopo qualche resistenza, la ragazza accetta, attratta dal guadagno e alzando la cifra (ecco il dio denaro che ha dominato gli yuppistici anni ’80). A fare da sfondo alla narrazione, un’eclissi totale di luna che avrà luogo quella sera stessa, evento che ha spinto gli Ulman a trasferirsi proprio in quella zona del Connecticut, da dove sarà visibile in maniera perfetta. Tutto è già chiaro per lo spettatore, ma non per Samantha, forse per razionalità, forse per bisogno/avidità.

Fedeltà completa all’epoca anche a livello tematico dunque, poiché sia la “baby sitter in pericolo”, che soprattutto il satanismo suburbano erano argomenti dominanti nel cinema dei tardi anni ‘70/primi anni ’80; ricordiamo, sulle baby sitter nei guai, Quando chiama uno sconosciuto, di Fred Walton, del 1979 e tra i numerosi film ad argomento satanico, la celeberrima saga di The Omen, iniziata nel 1976. Per tutto il film, fin dall’inizio, vengono lanciati piccoli indizi, frasi, segnali, delle piccole briciole di Pollicino, nonostante la tematica centrale sia già assolutamente palese.

L’abilità di West sta nell’aver saputo costruire una pellicola efficace ed originale, nonostante un soggetto semplicissimo e piuttosto prevedibile; in primis lavora sul creare una forte empatia verso Samantha. Nonostante le apparenze, infatti, non ci si trova davanti alla classica “trama dell’idiota” tipica di molti horror (degli ’80 e non): Samantha è lucida, intelligente, molto simile alla Laurie Strode/Jamie Lee Curtis di Halloween, nel suo essere outsider, diversa dagli altri, apparentemente fragile ma in realtà forte e non vittima inerme (sono simili anche fisicamente, entrambe ossute, androgine). Per quanto siano film molto diversi tra loro, The House Of The Devil offre alcune citazioni di stampo visivo al capolavoro di Carpenter, quasi un omaggio tra le righe, presente ma non esplicitamente dichiarato.

Per gran parte del film non succede quasi nulla: la tensione è sottesa, il pericolo incombente, già manifesto allo spettatore ma celato alla protagonista. La tensione sale man mano che l’ansia e la paura di Samantha crescono, in una sorta di soggettiva emotiva, rafforzata da trovate assai azzeccate, come le chiamate alla segreteria telefonica con finta risposta di Megan (meccanismo di illusione/delusione). Bellissima la scena in cui Samantha si scatena in un ballo liberatorio in giro per la casa, con l’inseparabile walkman, sulle note di One Thing Leads To Another dei The Fixx: la musica è al tempo stesso diegetica ed extradiegetica, lo spettatore ascolta ed è come se ballasse insieme a lei, anche in questo caso in soggettiva, questa volta di tipo uditivo.

Il finale è scomposto in due tempi: dapprima piuttosto prevedibile, con l’orrore che si scatena in maniera forse troppo manifesta e ovvia, poiché abbondantemente preannunciato, si snoda poi in una piega diversa, anch’essa non originalissima ma efficace nel chiudere la storia e nella definitiva delineazione del personaggio di Samantha. Un film non perfetto ma assai notevole, affettuoso omaggio ad un decennio cinematografico fecondo e memorabile per il genere horror, periodo ora come ora presente per lo più in inutili e lucrativi remake che un po’ sviliscono e decisamente svendono quel genuino cinema che fu.