Featured Image

Flesh of The Void

2017
Titolo Originale:
Flesh of The Void
REGIA:
James Quinn
CAST:
Man without a face (Il Prete)
Kmsura (L'Amputato)
Dead Flesh (Lo Stupratore)

Il nostro giudizio

Flesh of The Void è un film del 2017, diretto da James Quinn

Premesso che le quattro stellette le si dà più per la difesa morale di un certo tipo di cinema che per reali meriti, e anche un po’ per acchiappare il lettore che altrimenti passerebbe al prossimo articolo; premesso questo, Flesh of The Void, del ventitreenne austriaco James Quinn, è una di quelle cosette che spuntano regolarmente come funghi nel variegato e inafferrabile panorama del cinema sperimentale. Termine, certo, da usare tra virgolette, visto che, storiograficamente parlando, le avanguardie cinematografiche sono state due e due soltanto, la seconda e ultima delle quali si è conclusa con quell’appendice blasfema del cinema della trasgressione, maturato da Richard Kern e compagni di merende negli anni Ottanta. Dopo sono venute le migliori ispirazioni di Jörg Buttgereit, di Karim Hussain, di Elias Merhige che hanno sì posto le fondamenta estetiche dei lavori di Quinn, ma che ancora oggi vanno intese come pezzi unici, schegge impazzite di un’esigenza panica e dionisiaca di dire cose nuove e altre. Quinn analizza e metabolizza, ma non riesce a fare molto di più.

È giovane, bravo, ha una breve ma intensa esperienza anche e soprattutto nel mondo del videoclip, ma finisce impastoiato nell’inconsapevole arroganza di chi spera di intortare il prossimo spacciandogli il vecchio per nuovo. È cinema da rigattieri, il suo, che scava in un passato ingiustamente dimenticato e che si diverte a ripresentare in una specie di edizione restaurata. È arrogante, dicevamo, perché filma in super8 e 16mm, un atto da narcisisti che battono i piedi perché il mondo si accorga di loro. Ed è arrogante anche perché concepisce i suoi lavori per un’estetica del dolore fine a se stessa, avulsa da una spinta autentica all’arte, al cambiamento, alla trasformazione. In Flesh of The Void abbiamo una scansione in atti e prologo che non c’entra nulla col teatro greco, ma che richiama piuttosto nella forma la grafia svolazzante di Antichrist (2009) di Lars von Trier. Seguono inquadrature sporche di finestre, vecchi caseggiati e fumiganti complessi industriali, suoni distorti e brutte litanie deformate nella parodia di qualcosa che, più che impaurire, si fa stridente e al limite del grottesco. E poi le maschere di diavoletti e mostriciattoli, la vera e unica ossessione di questo strampalato regista che comprende e giustifica tutto ciò che ci è costruito attorno.

È una mania, quella per i paludamenti satanici, che rasenta la paranoia: ne troviamo in Tears of Apollo (2018), Sulphur for Leviathan (2017), persino nella clip musicale di Trinity of Decay (2016). Anzi, Flesh of The Void è la versione allungata, come sul letto di Procuste, di tutto quello che è già stato testato nelle retrovie della sua bottega di allegro maghetto. Retrovie che, appunto, non sfornano niente di diverso da boschi in cui si aggirano loschi figuri incappucciati che, senza logica né narrazione, fissano enigmaticamente lo spettatore. C’è ancora qualcuno, nel mondo, che pensa che il cinema dell’orrore sia questa roba qui: mutilazioni genitali, scene di stupro gratuite e indigeste, sprazzi di cazzi eiaculanti accostati a teste di bambini tagliate, intestina srotolate e affogate nel sudiciume di un bianco e nero volutamente granuloso. Perché? Questione di gusto. Chi scrive preferisce la figa. Chi guarda i film di James Quinn preferisce la morte.