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Everest

2015
Titolo Originale:
Everest
REGIA:
Baltasar Kormákur
CAST:
Jason Clarke (Rob Hall)
Jake Gyllenhaal (Scott Fischer)
Josh Brolin (Beck Weathers)

Il nostro giudizio

Everest è un film del 2015, diretto da Baltasar Kormákur.

Niente di più emblematico: scalare l’Everest. L’impresa per antonomasia, la sfida per eccellenza. L’immensità, lo stremo, il sublime e così via, passando per il preannunciarsi del fallimento. Che dedalo di emozioni disparate semplicemente attorno a questo nome: ovviamente. Sono automatismi come questi a fare di prodotti come Everest oggetti pericolosi, nel momento in cui vogliono spacciare la follia per eroismo o martirio e castrare unilateralmente un’icona. Approcciando l’affollatissima e fallimentare spedizione del ‘96 verso la vetta della Madre dell’Universo secondo il diktat semplificatorio e tracotante del “based on a true story”, il film di Baltasar Kormákur ha le fattezze  del ninnolo narrativo festivo in cui, paradossalmente, le immagini contano molto poco e tutto è portato avanti dai dialoghi.

Il caposquadra premuroso Jason Clarke, quello sregolato Jake Gyllenhaal, il patologo in fuga dalla depressione Josh Brolin (con tanto di Robin Wright presa di peso da House of Cards all’altro capo del telefono) , John Hawkes portatore sano di dramma (è l’unico di cui vengano palesate le origini umili): ce n’è per tutti, compresa Keira Knightley a casa incinta, in questo audiovisivo dai sentimenti teleguidati e dall’empatia tutta parlata, come se le tormente (interiori e) di neve e lo stesso Everest non esistessero, come se non fossero l’istinto e l’irrazionalità (leggi: l’umanità) ad essere alla base di un viaggio del genere. Ci ritroviamo appesi ai toni sempre morigerati e monocordi delle parole invece che sopra a dei crepacci, mentre momenti si susseguono quasi slegati tra loro.

Una pellicola come Everest che racconti un’impresa suicida facendo apparire tutti nel giusto è un film o limitato o disonesto, in ogni caso spacciatore plateale di pensieri facili. E scenderemmo a patti con questa chiusura mentale se l’idea di isolamento e di distanza, di pericolo e di vastità, di morte e di superamento riuscisse a scaturire da queste due ore di cartoline tridimensionali. Accetteremmo personaggi svuotati, se in questa vanità moralista ci fosse un po’ di eco, un dirupo. Cederemmo al ricatto delle fotografie dei veri protagonisti della vicenda (e della loro prole) prima dei titoli di coda, se queste non apparissero come un giudizio castrante. Ascolteremmo l’omelia, se questa non suonasse impenetrabile all’emotività. Chiuderemmo un occhio davanti ad un certo romanticismo for dummies in cambio di un tot di azione, di un qualche coinvolgimento epidermico, di un briciolo di cinema.