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Dis

2017
Titolo Originale:
Dis
REGIA:
Adrian Corona
CAST:
Bill Oberst Jr. (Ariel)
Lori Jo Hendrix (Sophia)
Peter Gonzales Falco (Orlando)

Il nostro giudizio

Dis è un film del 2017, diretto da Adrian Corona

Il termine greco pharmakon, oltre a configurarsi come indice della ricchezza semantica dell’antico idioma di Omero, designa magnificamente l’ambiguo e duplice effetto sull’uomo di ogni sostanza curativa: veleno e antidoto, preparato letale e medicamento, veicolo di morte e di vita; in breve, indissolubile legame di contrari. La mandragora (o mandragola), della famiglia delle Solanacee, costituisce uno degli esempi più emblematici della doppiezza con cui Madre Natura fa dono di sé al genere umano, essendo un’erba estremamente tossica e dal potere malsano, e tuttavia potendo diventare (almeno nelle credenze popolari e in quei saperi in cui scienza e magia si sovrappongono), se opportunamente estratta e maneggiata, un potente rimedio contro i più svariati malanni, dall’impotenza alla sterilità, dalla sfortuna alla povertà, dalla malattia alla morte. L’aspetto antropomorfo delle sue radici, connesso alle sue arcane qualità, sviluppò verso questa pianta, specie nei secoli a cavallo fra Medioevo ed età moderna (ma alla mandragola si fa cenno persino nell’Odissea), l’interesse di alchimisti e occultisti, che ne fecero oggetto dei propri studi in vista della creazione dell’homunculus, figura mitica della tradizione magico-ermetica, connubio spurio fra mondo vegetale e animale, nonché soprattutto affermazione antropocentrica della facoltà di creare la vita e di sottometterla ai propri voleri. Dis, presentato in anteprima al TOHorror Film Fest 2017, e sorta di autentico debutto del regista texano Adrian Corona nel lungometraggio (i due lunghi da lui realizzati in precedenza e di carattere prevalentemente sperimentale, Nariz Loca, del 2008, e What Is Gothic?, del 2009, oggi risultano introvabili, e Corona stesso considera Dis il proprio vero esordio), si pasce di queste suggestioni per delineare una vicenda criptica e sospesa.

Dis - 1

Un individuo dal tenebroso passato, il reduce dall’Iraq Ariel (un Bill Oberst Jr. maiuscolo), si aggira – fucile in spalla e movenze da action hero un po’ suonato ma indomito – all’interno di una selva tutt’altro che oscura, e nondimeno aspra, forte e priva di presenza umana: una Zona, una specie di anticamera dell’inferno. Si imbatterà nelle rovine di un (non)luogo certamente dimenticato da Dio, ma non dal guardiano che lo sorveglia, una figura dai tratti sessuali non identificabili e dal volto coperto da una maschera (da bondage), una sorta di Arcano Alchimista, il cui scopo è quello di reperire vittime sacrificali per far prosperare, tramite i loro fluidi vitali, il proprio giardino fatato, una coltivazione di mandragore, che, convenientemente curate, avranno il compito di dar vita a una nuova stirpe ibrida. Corona delinea una vicenda ridotta all’osso, in quanto a sviluppo narrativo, dialoghi, topografia dei luoghi e psicologie dei personaggi, ma ricca di intuizioni visive e acustiche, di suggestioni esoteriche e dotte (la “Dis” del titolo, ad esempio, non è altro che l’infera “città di Dite” dantesca), nonché soprattutto capace di creare un’atmosfera da fine del mondo, da fine del tempo, in cui Ariel appare davvero una sorta di “ultimo uomo della Terra”. Ecco allora che trovano un senso compiuto – non nel loro intraducibile contenuto simbolico, ma nella loro valenza significante all’interno della diegesi – anche i molti segni (rozzi murales, enigmatiche e indecifrabili scritte, simboli oscuri) che decorano sinistramente le pareti dello scarno edificio che funge da regno-prigione dell’Arcano Alchimista: vestigia scolorite e imperscrutabili di una civiltà, quella umana, che pare essere stata risucchiata da una forza ctonia.

Dis - 2
Con un andamento trasognato e un incedere talora assorto, Dis tratteggia un articolato “impero dei segni”, in cui i conflitti fra natura e cultura, vita e morte, presente e passato trovano una sintesi suggestiva e a tratti inedita, toccando l’horror e talvolta superandolo. In tal senso, il merito va anche ascritto al comparto visuale, in cui un’immagine nitida e quanto mai “pulita”, oltre che decisamente essenziale (flash-back in un terso b/n, accadimenti del presente resi con colori realistici), si contrappone al degrado e alla sporcizia evocati dal racconto e dalle location prescelte (il film è stato girato nello stato federale di Veracruz, in Messico). In tal modo, il contrasto fra significante e significato gioca a favore di entrambi, potenziandoli. Sul versante sonoro, risulta rimarchevole soprattutto il ricorso al quarto movimento – Marche aux supplice – della Sinfonia fantastica di Berlioz, il cui concept è, similmente a ciò che accade ad Ariel nel film, il senso di colpa di un uomo che ha ucciso l’amata e che, nel delirio causato da una droga, immagina di venire condannato a morte, condotto al patibolo e giustiziato. Anche da questi elementi, traspare una consapevolezza colta, ma non saccente, bensì al servizio del film e della sua articolazione significante, che rende Dis un lavoro complesso, sfaccettato e ricco di (piacevoli) sorprese.