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Dark Touch

2013
Titolo Originale:
Dark Touch
REGIA:
Marina de Van
CAST:
Missy Keating (Neve)
Marcella Plunkett (Nat Galin)
Pádraic Delaney (Lucas Galin)

Il nostro giudizio

Dark Touch è un film del 2013, diretto da Marina de Van.

Dopo l’omicidio della famiglia, l’adolescente Neve viene ospitata da una coppia di vicini e seguita da un’assistente sociale. Malgrado le cure e le attenzioni ricevute, non esce da un mutismo e da una chiusura che sembrano impenetrabili e rifiuta di rivelare, o di ricordare, quanto avvenuto nella notte del delitto. La sua convinzione, confessata all’assistente sociale, di poter muovere gli oggetti col pensiero non viene presa sul serio. Emarginata dalle compagne di classe per il suo atteggiamento introverso e scontroso, Neve rifiuta ogni contatto anche coi suoi ospiti e soltanto con la giovane dottoressa sembra riuscire ad instaurare un minimo di dialogo. Fuggita alla custodia della coppia, si rifugia nella casa dove abitava insieme ai genitori; e qui, una volta raggiunta, svelerà, nel modo peggiore, il segreto di quella tragica notte. Il tema di fondo, un’adolescente debole e fragile, dotata, più o meno consapevolmente, di poteri soprannaturali, non è certo inedito, sia nella letteratura sia nel cinema (gli esempi vanno da Carrie-Lo sguardo di Satana a L’incendiaria/Fenomeni paranormali incontrollabili a Phenomena); tuttavia, in Dark Touch viene  declinato e rappresentato con particolare originalità e talento inventivo. L’ambientazione, una spoglia e quasi disabitata campagna irlandese, costantemente coperta da un cielo basso e grigio, opprimente, stabilisce da subito la cifra visiva che domina il film: prevalgono, in sintonia con la storia, le tonalità fredde e cupe, dal blu al grigio al nero, negli esterni come negli interni e negli abiti dei personaggi (la protagonista veste infatti quasi sempre di nero). Le uniche varianti a questa scelta cromatica, che non costituiscono un’eccezione ma una conferma, sono il giallo artificiale e opaco dei lampioni nella scena della fuga notturna di Neve e il verde, anch’esso spento e scialbo, da cui è avvolta mentre percorre allucinata il corridoio della scuola verso lo studio della dottoressa, in un estremo tentativo d’esser ascoltata e aiutata.

Oppressa da un simile cȏté, la protagonista si chiude sempre più nella propria quasi rancorosa sofferenza di cui incolpa, infantilmente e irrazionalmente, anche chi vorrebbe aiutarla e rifiutando di spiegarne il motivo (reso comunque evidente allo spettatore, anche se lasciato fuori campo, già nelle prime scene); ed il solo, per quanto inutile, tentativo di superare quel dolore è rappresentato nella scena già menzionata della corsa  verso l’unica persona che ritiene capace di poter aiutarla e della quale, pur in modo ambiguo e contraddittorio, sembra fidarsi. Proprio in quegli istanti è racchiuso il senso del film: nella speranza, da parte di Neve, di non veder ripetuta la violenza che lei ha dovuto subire e nel suo desiderio, attraverso il contatto fisico (appena accennato, quasi timoroso) con una figura anche letteralmente materna di riappropriarsi dei più naturali e necessari sentimenti d’affetto e di protezione. Una speranza che sarà tuttavia frustrata: il male subito le riuscirà impossibile da vincere e Neve finirà col ritorcerlo contro chi in fondo non l’avrebbe meritato, in un finale che solo parzialmente ricorda quello, più spettacolare ed enfatico, ma proprio per questo in fondo meno disperato e crudele, di Carrie. Un ulteriore merito del film risiede anche in questa coerente ed approfondita descrizione del personaggio e delle cause del suo comportamento, che non poteva consentire una diversa, accomodante ed assolutoria, conclusione: una scelta necessaria e coraggiosa.

Non meno importante della messinscena e della scansione narrativa è infine la fisionomia e l’aspetto della protagonista, vero centro e cardine del film, che arricchisce e completa l’approfondimento effettuato in sede di scrittura: nello sforzo, riuscito, di creare un personaggio inquieto e problematico, mai banale e piatto, la cui sofferenza e disagio siano sempre tangibili ed evidenti, senza esser inutilmente enfatizzati da una recitazione sopra le righe. Un volto, quello di Neve, che non può non ricordare quello della Jennifer Corvino di Phenomena, ben presente, come si notava all’inizio, alla mente e agli occhi della regista; “sonnambula, semimuta, bellissima e fantasmatica” erano stati gli aggettivi usati allora per descrivere quel personaggio: altrettanto bene definirebbero ora la fragile e dolente protagonista di Dark Touch, incattivita dalla sofferenza inflittale e da quella violenza irrimediabilmente segnata e corrotta. A partire da materiali già ampiamente trattati e noti al pubblico, il film riesce dunque a rielaborarli e ad approfondirli in modo autonomo e originale e ad incrociare un orrore reale come la violenza sui bambini e gli adolescenti perpetrata dai genitori con uno soprannaturale e fantastico, rappresentato dagli efficaci ed essenziali effetti speciali, che segnano i momenti più drammatici e dolorosi della storia; che sono al contempo quelli di maggior sofferenza della protagonista, costretta a difendersi dal male con altro male e ad abbandonarsi infine ad una mortale catarsi.