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Confessions

2010
Titolo Originale:
Kokuhaku
REGIA:
Tetsuya Nakashima
CAST:
Takako Matsu (Yuko Moriguchi)
Yukito Nishii (Shuya Watanabe)
Kaoru Fujiwara (Naoki Shimomura)

Il nostro giudizio

Confessions è un film del 2010, diretto da Tetsuya Nakashima.

Figli giapponesi allo sbando nel delirio più nero, di quelli che risucchiano in un vortice senza uscita perché frammentato, fatto a pezzi come un cuore che non riesce più a lacrimare, silenzioso e contemporaneamente demoniaco e angelico, il terrore più percepibile di ciò che potremmo essere, l’incubo divenuto realtà, un viaggio che sa di doloroso e tremante onirico, caramella gommosa al gusto veleno, soffio impercettibile e già evanescenza di un cancro non necessariamente morte ma di sicuro mancanza di vita.

Si è sempre sdoppiati fra maschere e avatar, con quella dimensione senza dimensione che è l’etere dell’online, disconnessi dal mondo e sempre in un altrove presentassente, il vacuo di un labirinto che è già spiraglio grigio, «il suono di quando stai per perdere qualcosa che ti è molto caro».

Il modello di punta per tutti gli anni zero rimane il capolavoro di Shunji Iwai, All about Lily Chou Chou, con i suoi adolescenti ipnotizzati da una (i)dea della musica come unico rifugio esistenziale; poi, Sion Sono ha allargato il campo facendo della connessione con se stessi l’unico tema comune della sua ammirevole filmografia.

Ora ci prova Tetsuya Nakashima in un territorio che gli è totalmente nuovo, lui CHE è l’autore dei colori pastello, delle esplosioni cromatiche a forma di arcobaleno, del kawaii giapponese che viaggia tra marshmallows e orsetti gommosi, vedere Kamikaze Girls e Paco & The Magical Picture Book per farsi un’idea. Eppure, evidentemente, s’è rotto il cazzo del rosa e ha voluto sprofondare nell’infinito abisso dell’oscurità con Confessions, raccontandoci le vicende di Yuko Moriguchi, una maestra in cerca di vendetta dopo la scoperta del cadavere della propria figlia di quattro anni affogata nella piscina scolastica.

Secondo i suoi calcoli, i colpevoli si nascondono proprio nella classe dove insegna, tra quegli adolescenti dagli occhi innocenti e dalle facce angeliche, piccoli assassini che possono uccidere chi gli pare in quanto protetti dalla legge sui minori. Dalla voce di Moriguchi il regista cede il testimone agli altri personaggi che ruotano attorno alla vicenda, ricreando così un racconto corale fatto appunto di confessioni, di voci off che sono spicchi narrativi di questo universo fatto di ombre e raggelato dolore, tra genitori fantasmi e figli usciti da un disco dei My Chemical Romance.

In patria ha vinto praticamente tutti i premi più importanti, fino a essere scelto come candidato giapponese agli Oscar. Qui in Italia arriva con tre anni di ritardo distribuito dalla Tucker Film, gli stessi santi che ci hanno portato in sala Departures di Takita Yojiro e Poetry di Lee Chang-dong: un’occasione imperdibile per godersi su grande schermo le curatissime immagini di Nakashima, palesemente un vanitoso esteta che vuole stordire e stupire gli spettatori col suo virtuosismo registico.

L’operazione è riuscita solo in parte: Nakashima non ha il lirismo drammatico di un Sion Sono o la sublimazione emo-suicida di Iwai, e i suoi giochetti visivi, diverse volte, sanno più di videoclip sborone che di cinema che dovrebbe pulsare sangue. Il suo è principalmente un abuso del rallenti privo di giustificazione estetica così tanto ostentato da diventare addirittura fastidioso; c’è chi giura che senza rallenti il film sarebbe durato sì e no mezz’ora, a noi il dubbio viene quando vediamo che ogni microstronzata insensata è effettivamente rallentata, convinto com’è che basti questo espediente per rendere interessante anche le cose più futili. Non so se rendiamo l’idea: se io scoreggiassi, Nakashima coglierebbe il mio peto con un rallenti.

Comunque, nonostante questa inutile fissazione, Confessions ha i suoi momenti di magnificenza evocativa. L’autore non è un coglione finito dentro la cabina di regia per sbaglio e ce lo dimostra in più frangenti: il montaggio che sa di ketamina iniettata in vena, l’inaspettato romance che abbraccia tenerezza e macabra crudeltà morbosa, fino al bellissimo e immenso epilogo, il collasso nevrotico che si fa evanescenza e fuoco d’artificio, una scena che ha la grandiosità di una canzone che non vorresti aver mai sentita perché ti ha spezzato il cuore senza lasciarti la colla, la sublimazione di un pentimento che arriva troppo tardi, senza consolazione e affogato denso di lacrime, con il rallenti che trova finalmente il suo perché in quanto usato come pennello che traccia ferite indelebili nell’anima.

Forse la rinascita e la redenzione sono dietro l’angolo, ma è necessario passare attraverso la morte, quella catartica che scava nelle ossa con la crudeltà dell’esperienza. Confessions viaggia esattamente su questi binari: fa schifo ma è bellissimo, è pieno di cazzate ma poi mette in ginocchio, è noioso ma esplode in brutale commozione, in un crescendo che ha l’effetto di un’intossicazione virale, come un ricordo che torna immagine, una visione che non stenta a eclissarsi, tre anni fa come oggi.