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Bluebeard

2017
Titolo Originale:
Haebing
REGIA:
Lee Soo-yeon
CAST:
Cho Jin-woong (Byun Seung-hoon)
Shin Goo (padre di Jung Sung-geun)
Kim Dae-myung (Giovane Sung-geun)

Il nostro giudizio

Bluebeard è un film del 2017, diretto da Lee Soo-youn

In Corea del Sud il thriller, possiamo dirlo, è un genere fatto con amore. Basti pensare che uno come Bong Joon-ho si è fatto conoscere dalla critica, nel 2003, grazie al suo Memories of Murder, amarissimo giallo basato su una storia vera. Negli ultimi anni ci sono stati consegnati altri grandi titoli, come il violentissimo I Saw the Devil di Kim Ji-woon e l’accoppiata vincente di Na Hong-jin, il decadente The Chaser e l’allucinante Goksung, poliziesco sfociante in horror che sarà distribuito in home video in Italia. Bluebeard è un film che sintetizza in sé le varie caratteristiche dei suoi predecessori, a dimostrazione di come il “k-thriller” abbia ormai fatto scuola. Diretto dalla regista Lee Soo-youn, narra la storia di Seung-hoon, medico fresco di divorzio che si è appena trasferito in un’altra città. Una volta lì, farà subito conoscenza dei suoi padroni di casa, una famiglia di macellai all’apparenza cordiali e amichevoli. Venuto a conoscenza di una serie di terribili omicidi avvenuta in città negli ultimi anni, alcuni indizi porteranno Seung-hoon a sospettare che proprio i suoi padroni di casa siano i mostri responsabili di quelle morti. Ma il dubbio è legittimo: i suoi sospetti sono fondati o è tutto frutto della sua immaginazione?

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Bluebeard tradisce però anche un’ampia cineteca occidentale di riferimento, da Rear Window al giallo argentiano, passando anche per l’ovvio parallelismo con la famiglia di macellai di Texas Chainsaw Massacre. Al centro c’è l’indagine, la teoria che deriva dalla visione di qualcosa di sfuggente e non propriamente a fuoco. Il personaggio interpretato da Cho Jin-woong non pare tanto dissimile da quelli di Tony Musante o di David Hammings: condivide con loro la fatalità di qualcuno che viene a trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, ed è spinto poi ad indagare e a mettersi in pericolo. Inoltre, come faceva Jimmy Stewart costretto su una sedia a rotelle, Seung-hoon si cala perfettamente nella parte del voyeur, trovando sempre l’occasione per dare un’approfondita sbirciatina all’interno della casa-negozio dei suoi affittuari, ma risultando anche, suo malgrado, più goffo del suo fascinoso predecessore. Infine la componente slasher, con teste mozzate e incartate come pezzi di manzo appena macellati, dona allo spettatore il servizio completo, mistero e sangue (molto, sia il primo che il secondo). Di puramente coreano rimangono la narrazione dilatata, lo sguardo su un substrato sociale assai disagiato (stavolta anche per quanto riguarda le classi benestanti) e sull’inettitudine, o addirittura assenza, della polizia locale.

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Cosa rende però Bluebeard un film da ricordare e da scoprire, oltre all’ottima scelta dei modelli e delle citazioni? La capacità di sfruttare il materiale diegetico per intavolare una riflessione sull’immagine e il suo grado di verità. Nel convulso finale, infatti, assisteremo a non uno ma ben due colpi di scena in cui il muro di apparenze costruito da Seung-hoon dovrà prima sgretolarsi per poi parzialmente ricomporsi negli ultimi minuti di pellicola. Ciò che è convinto di aver visto ci viene mostrato senza filtri e senza contraddittorio, costringendoci ad accettare la sua visione come quella più fedele alla verità dei fatti. Una volta, però, smentito il suo punto di vista, l’ultima sequenza fungerà da elemento chiarificatore, nell’affidabilità del REC, della data e dell’ora. E questo, signori miei, è il cinema che riflette su sé stesso domandandosi: “L’immagine è verità o visione?”.