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Blair Witch

2016
Titolo Originale:
Blair Witch
REGIA:
Adam Wingard
CAST:
James Allen McCune (James Donahue)
Callie Hernandez (Lisa Arlington)
Brandon Scott (Peter Jones)

Il nostro giudizio

Blair Witch è un film del 2016, diretto da Adam Wingard

A leggerne in giro sembrerebbe davvero che per parlare di Blair Witch (con o senza il “Project” fa lo stesso) non si possa non fare a meno di esumare l’Arcadia idealizzata dei favolosi Anni Novanta, epoca affollata di allocchi che alla storia del vero found-footage sulla turpe fattucchiera avevano creduto sul serio. Qualcuno ci sarà davvero pur restato impigliato in quel calappio, ma probabilmente i creduloni di allora sono gli stessi che oggi scambiano Forum per la Corte suprema o Voyager per History Channel. A questo punto ci si apre un orizzonte informale e utilissimo per aggirare allegramente tutta la pippa del marketing virale del prototipo, che tra l’altro i manager della Lionsgate per questo sequel hanno persino discretamente provato ad emulare (con una – per bocca loro – forsennata “CIA-level-security” approntata per eludere fughe di notizie sul progetto, culminata con il depistaggio sul nome di lavorazione dello stesso che a un certo punto pare fosse diventato l’inflazionato The Woods). Affondiamo i denti nella ciccia, allora. La sfida di un secondo capitolo è quella di decidere quanto e quando mostrare.

Era impossibile, infatti, riproporre pedissequamente uno script che si affida a un villain latitante dall’ inquadratura per il 100% del film come faceva il capostipite. Come riaprire, inoltre, un popò di POV che non si chiudeva?. Per risolvere queste incognite la produzione ha interpellato Adam Wingard, che non è certamente l’ultimo fra gli scemi. Il paffutello d’Oak Ridge (VHS) si adatta alla perfezione alla definizione di talento non completamente adulto, vuoi per la stitichezza dell’ industria cinematografica vuoi per demeriti propri. You’re Next (2011) e The Guest (2014) erano opere piacevoli ma prive dello slancio cristallino del campione. Classe ’82, di fatto moderatamente giovane, Wingard ha un certo gusto nella composizione dell’inquadratura e uno stile denso. Insieme a Jim Mickle (Cold in July, 2014) e al bravissimo Ti West è un po’ il colpevole di questo revival 80’s/ 90’s che ha visto il suo culmine in quella sagra del comfort-food e dell’inoffensivo che è il Netflix’s Stranger Things. Neanche il sodale Simon Barret rappresentava una garanzia come sponda adeguata in fase di scrittura, visto che uno dei suoi massimi exploit creativi era l’onesto b-movie Frankenfish.

La prima volta della strega ci lasciva sul precipizio – c’è da riconoscerglielo – con un cliffangher solo accennato che per Wingard era anche la vera discriminante da assecondare o sovvertire. Per battagliare con quel successone serviva un game-changer. Wingard riesce nell’intendimento solo in una certa misura. Se da una parte scava nell’aspetto mitologico dell’arpia “perché il primo film non svelava nulla”, le nozioni che dosa nel dipanarsi dell’intreccio sono laconiche, compendiose (la megera sarebbe l’ennesima maliarda estinta dalla comunità di picchiapetto per aver molestato bambini come un Krueger qualsiasi). Circa l’esposizione della minaccia, la sceneggiatura di Blair Witch si limita a condurre il “visibile” dal grado-zero assoluto di Sanchez/Myrick fino al 5% circa della pellicola impressa. Si vede ancora poco per i canoni dell’horror tout-court, intendiamoci, ma quello che si intravede è discretamente angoscioso.

I punti di vista si moltiplicano come in un prisma triangolare, e fra il manipolo che parte alla ricerca della sorella di uno di loro (la Heather del prototipo) le nuove tecnologie irrompono a gamba tesa (anche se i droni sono usati con intelligente frugalità). I personaggi latitano penosamente in quanto a carattere, va detto. Il fratellino della Donahue (James Allen McCune) è l’ennesimo deus ex machina corroso dalla perdita, il nero interpretato da Brandon Scott è l’abituale macchietta tutta coattagine e stereotipi (irruente e scafato come tipizzazione hollywoodiana impone alle spalle colored). Nel roster attoriale si salva per il rotto della cuffia giusto il dietrologo schizzato di Wes Robinson (colpevole suo malgrado di un’apparizione nel pre-finale contraddistinta dal make-up più imbarazzante dai tempi del manigoldo biondastro di Mamma, ho perso l’aereo).

Sul versante jump-scared c’è un tripudio d’effetti sonori dopatissimi e molto ricercati. Rami spezzati, lisciati, torti, fatti esplodere. Passi striscianti, gravosi come quelli d’un Grizzly, ridondanti. L’allucinazione sonora in tutta la sua grandeur è l’aspetto più terrificante dell’intero trip nei boschi del Nord Est del Pacifico (subentranti al Maryland in fatto di location), e pur se alla lunga i continui cambi di registri sonori annoiano un po’ ci si rende conto che “l’ossessione per il Reale” era davvero uno degli obiettivi del regista del Volunteer State. I cardini del primo episodio vengono rivisitati senza particolari ansie. Manca fortunatamente all’appello la scena del muco profuso a secchiate durante un confessionale, sequenza resa cult da innumerevoli parodie nelle commedie demenziali degli Anni Zero. Riemerge invece dalle nebbie dei tempi il casolare fatiscente mattatore dell’isterico e memorabile piano sequenza del film di Sanchez.

Il locus horribilis è stavolta percorso in lungo e in largo, attraversato e passato al setaccio in un claustrofobico segmento nelle fondamenta, facendo seguito all’adagio che vorrebbe ogni singolo elemento del prequel rivisitato in chiave bigger and badder. In Blair Witch l’elemento naturale (alberi, animali, ruscelli) e quello soprannaturale (apparizioni, ninnoli arcaici) coincidono con esiti lusinghieri. Ogni evento può avere una doppia lettura, sistematica o superstiziosa, almeno fino all’ultimo atto che è decisamente il più grafico e sbilanciato dell’intero lotto. Gradita l’improvvisata del body-horror nel mezzo del cammin, con una ferita purulenta che cela a malapena il pulsare di qualcosa di ferale pronto a farsi largo fra le carni ammorbate della “sciantosa” del team (Corbin Reid).