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Black Mirror: Bandersnatch

2018
Titolo Originale:
Black Mirror: Bandersnatch
REGIA:
David Slade
CAST:
Fionn Whitehead (Stefan Butler) Will Poulter

Il nostro giudizio

Black Mirror: Bandersnatch è un film del 2018, diretto da David Slade.

Ad essere onesti, sarebbe stato molto più giusto un “non giudicabile”. All’inizio dei titoli di coda, dopo ogni nuovo finale alternativo, il pensiero che passa per la testa è: “Ciò che ho appena visto non è un film”. Senza stare a scomodare l’ontologia, per rispetto anche della sintesi che si richiede, nell’essere umano contemporaneo è insito il concetto che sta dietro l’oggetto filmico: ossia un prodotto audiovisivo che racconta una storia seguendo una struttura narrativa classica in tre atti. Ciò che avviene in Bandersnatch è qualcosa di completamente ed obiettivamente estraneo a quanto detto sopra. È infatti arrivato, dopo anni di speculazioni, l’atteso episodio interattivo di una delle serie cardine dei nostri tempi, quel Black Mirror che ha trovato nella piattaforma Netflix, dopo due stagioni inferiori alle precedenti distribuiti da Channel 4, il campo da gioco più adatto per lanciarsi in questo progetto sperimentale. Usiamo il termine “gioco” non a caso, poiché l’aspetto videoludico, oltre ad essere centrale nella trama, lo è altresì nell’esperienza spettatoriale che il simil-film diretto da David Slade (Hard Candy) offre all’abbonato Netflix.

A fronte di una struttura narrativa che vede il progettatore Stefan Butler (Fionn Whitehead) intento a creare il suo videogame Bandersnatch, ispirato ad un omonimo romanzo interattivo, lo spettatore viene incaricato di prendere delle decisioni in vece di Stefan: tali scelte possono essere pressoché ininfluenti (come quali cornflakes mangiare a colazione o quale tipo di musica ascoltare) o determinanti per il prosieguo della storia. Bandersnatch consta infatti di cinque ore di girato totali, con 68 scelte di default e 250 complessive. Un numero sterminato (e volendo, spropositato) di alternative e di sviluppi diegetici differenti. Si sperimenta, dunque, un proprio percorso fino ad uno dei sette possibili finali, salvo poi poter evitare i titoli di coda e ricominciare da un preciso aut aut precedentemente affrontato. L’intrattenimento c’è ma, non è quello che si definirebbe proto-filmico. Vi è piuttosto una riflessione tout-court sul concetto di spettatorialità: chi guarda Bandersnatch prova l’ebrezza di essere sceneggiatore, regista, montatore e anche responsabile della colonna sonora del film, attraverso una serie di scelte che riterrà più o meno coerenti con quella che è la sua idea per la storia. Anziché subire il prodotto audiovisivo, lo comanda, o almeno così si illude.

Cosa è dunque questo prodotto? Un esperimento meticcio che cade nel momento in cui si realizza la natura forzata dei colpi di scena da noi stessi decisi o una tesi, con annessa concreta dimostrazione,  sull’inapplicabilità di una spettorialità attiva? Di sicuro siamo di fronte al “film” dell’anno per i potenziali strascichi riflessivi e culturali che lascerà dietro di sé, oltre all’inevitabile divisione di giudizi critici e il conseguente “being talked about” di wildiana memoria. L’esperienza Bandersnatch mette alla prova la nostra voglia di essere deus ex machina, è snervante nel suo estremismo come tuttavia lo fu all’opposto Funny Games di Michael Haneke nel 1997, con quel crudele rewind che riconsegnava al regista la possibilità di un finale diverso dalle aspettative dello spettatore. Quello fu un unicum che, però, lasciò un’impronta incancellabile nelle nostre menti: non resta altro che sperare lo stesso destino per Bandersnatch, affinché se ne continui a riconoscere il bene oltre che il male.