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Black Cat (De Profundis)

1989
Titolo Originale:
Black Cat (De profundis)
REGIA:
Luigi Cozzi
CAST:
Florence Guérin (Anne Ravenna)
Urbano Barberini (Marc Ravenna)
Caroline Munro (Nora)

Il nostro giudizio

Black Cat (De Profundis) è un film del 1989, diretto da Luigi Cozzi.

Lo abbiamo sempre preso un po’ troppo sottogamba, Black Cat (De Profundis), il terzo capitolo spurio della Trilogia delle Madri, sceneggiato da Daria Nicolodi, ma riscritto e diretto da Luigi Cozzi. E invece, a rivederlo oggi, a riassaporarlo oggi un quarto di secolo dopo la sua realizzazione, sprigiona una fragranza unica. Sarebbe ovvio dire che si è comportato come fa il vino buono. Meno ovvio paragonarlo al piccolo ma affascinante santuario di un qualche dio ignoto e oscuro, dissepolto dagli archeologi che in fondo siamo, nella terra piena di doni del cinema bis. Le fasi gestatorie sono chiare: la Nicolodi, sganciatasi da Argento, decide che il tempo è venuto per scrivere la parola fine sulla grande trilogia delle Madri (quella che Dario definiva dell’“Alchimia Moderna”); e siccome lei aveva concepito la sceneggiatura di Suspiria e di Inferno – perché, in buona sostanza, questo era: la traccia, il disegno complessivo di quelle storie dipendevano da Daria, e poi Dario rifiniva, cesellava, argentizzava – sempre lei scrive il capitolo che dovrebbe concernere la Mater Lachrimarum, quella che mancava all’appello. Suscitando dal buio mitologico, però, la figura di Levana, la dea che nella latinità presiedeva all’esposizione dei bambini appena nati al Cielo, e che nella fantasia prima di De Quincey e poi della Nicolodi, diventa la capessa delle Madri, la testa e la mente del loro serpentiforme nucleo. La storia girava attorno a un regista e alla sua donna che si mettono in testa di portare sullo schermo la faccenda dequinceyana dei Suspiria De profundis, aprendo così il fondo di un pozzo nero da cui sarebbero fuoriusciti, oltre che orrori inenarrabili, i rigurgiti della vicenda autobiografica di Dario e Daria. Sarebbe bello poter leggere quello script d’origine.

Cozzi, che non vuole inimicarsi Argento, parte da quella base e va – come non poteva non essere – per i fatti suoi, a tessere una trama che prende spunti dalla sceneggiatura della Nicolodi, ci aggiunge effettistica speciale sci-fi a manetta, autocitazioni da Contamination (Karina Huff esplode dall’interno in una sequenza gorissima e molto bella), obbedisce ai desiderata del produttore subentrato nell’operazione, Golan Globus, che vorrebbe fare un Gatto nero, facendo camminare un micio qua e là per i set – né più né meno quanto aveva fatto Fulci con il suo pretestuoso Gatto nero – e infine frulla tutto quanto per ottenere una salsa alla Philip Dick (emulsionandola ben bene con Scanner e Fury): siamo sogni dentro altri sogni, viviamo una realtà a scatole cinesi, i mondi sono come matrioske. Beh: funziona, nonostante a un certo punto il filo logico si disfi e si spanda a mo’ di arabesco. Funziona la storia di Urbano Barberini che con il suo sceneggiatore Maurizio Fardo si è messo in testa di dare un seguito a Suspiria e per questo va a disseppellire Levana, che dalla resurrezione metaforica sullo schermo passa alla resurrezione nella realtà: perché De Quincey scrisse il suo testo – racconta l’occultista Karina Huff – ispirandosi alla figura di una potentissima strega morta nel 1300, che mentre i nostri mettono in moto i preparativi per il film, scardina una vecchia tomba impolverata e irragnatelata e, tra tagli di luci acide modello Inferno, torna all’aria aperta, col suo viso che è un alveare di pustole, gli artigli adunchi e il corpo che sparge vermi e serpenti all’intorno. Tipo il Dr. Freudstein di Fulci.

Ann, cioè Florence Guerin, la moglie di Barberini, è l’attrice che dovrebbe incarnare Levana. Ma prima che lei entri nel corpo della strega, la strega entra dentro di lei, tramite sogni e incubi che cominciano con un balzo fuori da uno specchio nella casa dove Ann vive insieme al marito, a un bimbino di pochi mesi e (attenzione!) a una baby sitter interpretata da Luisa Maneri. Fardo ha come compagna, invece, la tenebrosa Caroline Munro, attrice pure lei che sarebbe pronta a patteggiare con il Diavolo pur di interpretare Levana. E il Diavolo le dà ascolto. Del nucleo di origine della Nicolodi sembra di capire sia rimasta nel film di Cozzi la suggestione di un produttore paralitico del film su Levana, interpretato da Brett Halsey e che qualche recensore americano argutamente anche se illogicamente mette in relazione con il carattere di Varelli in Inferno. Halsey, che si chiama Leonard Levin nella fiction, ha una segretaria-guardia interpretata da Alessandra Acciai, che nel 1989 esordiva tra qui e Il gioko di Lamberto Bava. Bene: il marchingegno di Black Cat (De Profundis) è ben finalizzato a produrre suggestione e anche qualche brividino emozionante quando, in un paio di occasioni, venendo citato il titolo di Suspiria, parte come sottofondo il giro di carillon che era lo stigma argentiano. La scena più figa è quando, a tavola, i quattro protagonisti alzano i calici per brindare al film dopo avere trovato il produttore e uno di loro, Fardo, dice: “A Levana”. Musichetta dei Goblin: “E chi è Levana?” e segue spiegone.. Gli effetti sono gorissimi e la semina delle citazioni copiosa, fin dal movie in the movie dell’inizio, quando la Guerin recita sul set di un thriller diretto da Michele Soavi dove il killer è mascherato come quello di Sei donne per l’assassino. Fragranza, lo ripeto, di un altro tempo. Allora assaggiavamo con stronza sufficienza; oggi non possiamo che abbuffarci e ne vorremmo ancora.