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Beirut

2018
Titolo Originale:
Beirut
REGIA:
Brad Anderson
CAST:
Mason Skiles (Jon Hamm)
Rosamund Pike (Sandy Crowder)
Mark Pellegrino (Cal)

Il nostro giudizio

Beirut è un film del 2018, diretto da Brad Anderson.

Forse non ce ne siamo mai veramente resi conto fino in fondo, ma la guerra, in ogni sua forma e contesto, è davvero un gran brutto affare. Mentre il mondo intero assiste stremato (e un poco allarmato) all’infinita soap opera delle reciproche masturbazioni tattico-politiche fra Her Trump e il Compagno Kim, un conflitto ben più infido e strisciante, combattuto nell’ombra ma non certo tirchio di eclatanti manifestazioni, sembra essere stato momentaneamente messo in stand by dalla cronaca quotidiana, salvo poi riesplodere vigoroso ogni qual volta un pazzoide barbuto e dalla pelle più o meno scura si mette a inneggiare ad Allah nel centro di una piazza o nel caldo ristoro di un’affollata sala concerti. A fungere da memento mori riguardo al sempreverde e dilagante morbo del radicalismo islamico ci ha opportunamente pensato il buon Brad Anderson – uno che, a conti fatti, tra grande e piccolo schermo, i generi se li è passati un po’ tutti, dall’horror (Session 9, Vanishing on 7th Street) al thriller (L’uomo senza sonno, Transsiberian, The Call), passando attraverso lo sci-fi abramsiano (Fringe, Person of Interest) e il gangster scorsesiano (Boardwalk Empire) –, deciso più che mai a impiegare la storia del passato (più o meno recente) per tematizzare, in maniera lucida e tagliente, un presente del quale, ancor oggi, manca una sincera e profonda consapevolezza. A tal proposito Beirut capita, come si suol dire, a fagiuolo, soprattutto se si tiene conto del fatto che l’ottima sceneggiatura sulla quale si adagia era già bel che pronta nel magico e affollato cassetto dello sceneggiatore Tony Gilroy (esatto gente, propria la celeberrima penna dietro alla saga di Jason Bourne) fin dal lontano 1991, senza tuttavia poter essere convertito in celluloide (meglio, in pixel) se non a seguito del successo scatenato dall’Argo di Ben Affleck in materia di hostage (o negotiation) thriller retrò. Poco male, poiché alla fine, come al solito, ci ha pensato Netflix a tagliare la testa al toro. Meglio tardi che mai, giusto?

Libano, 1972. Poco prima dello scoppio della tristemente famosa guerra civile destinata a sconvolgere la “Parigi del Medio Oriente”, Mason Skiles (l’immenso Jon Hamm di Mad Men) è un funzionario governativo di stanza all’ambasciata americana di Beirut, dove conduce una vita tutto sommato tranquilla e agiata assieme alla moglie Nadia (Leïla Bekhti) e al giovane Karim, un orfano che la coppia è decisa ad adottare. Tuttavia, il fratello di quest’ultimo, Raffik (Mohamed Attougui), è un terrorista facente parte del gruppo estremista islamico Settembre Nero, il quale si rende ben presto responsabile di un terribile attentato dove la povera Nadia perde la vita. Passano dieci anni e Mason, tornato nel frattempo negli Stati Uniti senza più alcun caro affetto, viene improvvisamente richiamato nella capitale libanese dall’Intelligence americana per compiere una difficile e pericolosa missione: negoziare la liberazione dell’amico ed ex collega Cal (Mark Pellegrino), rapito da una cellula jadista della quale fa parte nientemeno che Karim, divenuto un simpatizzante radicale dell’Islam. Catapultato in un paese ormai sconosciuto e in preda all’anarchia, Mason dovrà fare di tutto per portare a termine il compito assegnatoli, coadiuvato dall’intrepida Sandy Crowder (una finalmente rediviva Rosamund Pike).

È inutile girarci intorno: comunque la si voglia mettere Beirut è, semplicemente, un gran bel film, nel senso più puro e onesto del termine, senza inutili pippe mentali o grammaticali. È bello per il modo con cui è filmato e fotografato, con inquadrature che trasudano polvere e sudore da ogni poro. È bello per il modo con cui è diretto e interpretato, attraverso una sapiente alchimia fra tensione ed emozione. È bello, soprattutto, per come è narrativamente apparecchiato, veicolando un messaggio finalmente (quasi) del tutto privo dal solito patriottico machismo guerrafondaio a stelle e strisce (attenzione, quasi!), dimostrando chiaramente come gran parte del radicalismo religioso, ieri come oggi, è sicuramente da imputare alle fallimentari e pericolose politiche di democratizzazione “forzata” promosse e perpetrate, da tempo ormai immemore, dal pacioso Zio Sam. Nonostante tutto, messa da parte la fisiologica e inestirpabile retorica di fondo, possiamo dire che, finalmente, almeno stavolta, con Beirut, Netflix l’ha fatta dritta nel buco, senza troppi sbrodoloni di sorta.