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Antiviral

2012
Titolo Originale:
Antiviral
REGIA:
Brandon Cronenberg
CAST:
Caleb Landry Jones (Syd March)
Sarah Gadon (Hannah Geist)
Malcom McDowell (Dr. Abendroth)

Il nostro giudizio

Antiviral è un film del 2012, diretto da Brandon Cronenberg

Quando il film d’esordio di Brandon Cronenberg uscì, nel 2012, anno che sembra appartenere a ere geologiche fa, ebbe l’effetto di un ordigno esplosivo lanciato dentro a uno stagno. Almeno lo ebbe per chi seguiva il cinema horror e veniva da una decina d’anni davvero complicati. Si può dire adesso, con l’horror in forma più che mai, e nel pieno di un vero proprio rinascimento, forse addirittura superiore all’età d’oro degli anni ’80, che Antiviral fu uno dei primi segnali di ripresa per un genere alla ricerca dell’identità perduta. E che segnale. In un futuro prossimo, esistono cliniche che vendono ai fans le malattie contratte dalle celebrità. In pratica, se un tizio famoso a caso si becca un’influenza, ne può cedere i diritti dietro lauto pagamento a una di queste cliniche, che si occuperà di riprodurre, mettere sotto copyright il virus e iniettarlo al pubblico pagante. Se tutto ciò non fosse sufficiente, ci sono ristoranti, rosticcerie e macellerie preposte dove si può comprare carne da mangiare prodotta dalle cellule delle celebrità. Il protagonista di Antiviral, Syd (Caleb Landry Jones), lavora in una di queste cliniche, ma è anche un contrabbandiere di virus: porta fuori le malattie dalla clinica eludendo i controlli tramite il semplice stratagemma di contrarle a sua volta, per poi spacciarle sul mercato nero. Ma, quando una delle star più famose e amate, Hannah Geist, si ammala all’improvviso e mette subito in vendita la malattia, Syd cerca di iniettarsela prima ancora che arrivi alla clinica, perché dovrebbe andare a ruba. Se non fosse che è mortale.

Antiviral è un film che sbalordisce; a rivederlo anche oggi sembra quasi impossibile che, all’epoca, Cronenberg fosse un esordiente con alle spalle qualche corto e niente più; si crede a stento che il film abbia un budget che si aggira intorno al paio di milioni di dollari, perché Antiviral non ha una sola nota stonata e quasi acceca nella sua gelida perfezione. Gelida è termine non utilizzato per caso: Cronenberg, sia nel ruolo di sceneggiatore che dietro la macchina da presa, prosciuga il suo film da ogni valenza emotiva ed è proprio in questa scelta che risiede la riuscita dell’opera. Non si potrebbe rappresentare altrimenti un mondo in cui le masse adorano delle “allucinazioni collettive” (così un personaggio definisce le celebrità), arrivando a nutrirsene e a contrarre le loro stesse malattie, nell’illusione di una vicinanza e di una condivisione altrimenti irraggiungibili, un amore che non potrà mai e poi mai essere ricambiato, e di cui il virus e la carne non sono altro che surrogati, altrettante allucinazioni create per riempire dei vuoti: esibire con orgoglio un herpes sulle labbra perché una persona famosa lo aveva a un evento a cui mai e poi saremo invitati. Questa la società descritta da Brandon Cronenberg. E come si potrebbe provare vicinanza emotiva nei confronti di un futuro del genere? Lo stesso Syd, cinico e distaccato perché conosce i trucchi e i meccanismi di questo delirio collettivo, legale e organizzato, nel momento in cui si trova a condividere con la tanto splendida quanto impalpabile Hannah la stessa malattia, e quindi lo stesso destino, ne viene quasi trasfigurato, non può che intraprendere un percorso quasi mistico, molto vicino al martirio.

Racconto e stile vanno di pari passo, in Antiviral, con la lucidità spietata della narrazione perfettamente specchiata nella messa in scena, anch’essa fredda e geometrica, con un uso del colore che non si adagia, come andava di moda all’epoca, su tonalità livide e bluastre per rendere un universo distopico, ma preferisce giocare su un bianco abbagliante, e sporcarlo e imbastardirlo con improvvise esplosioni di colori accesi: il sangue, l’arancione dei capelli di Syd, i fiori presenti in parecchie sequenze. Anche le scenografie sono frutto di uno studio attento, con quei macchinari dall’aspetto antico, analogico, per una tecnologia che si presume avanzatissima, gli interni, asettici e spartani, che contrastono con i luridi locali di una macelleria, dove si producono gli sgradevoli pezzi di carne di celebrità e dove sta per sorgere un elemento nuovo, il punto d’arrivo di tutto il film e del nostro protagonista: una concezione carnale dello spirito, della vita che prosegue anche dopo che abbiamo smesso di respirare. Orrore puro, nell’accezione più nobile del termine.