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Acrimony

2018
Titolo Originale:
Acrimony
REGIA:
Tyler Perry
CAST:
Taraji P. Henson (Melinda)
Lyriq Bent (Robert)
Crystle Stewart (Diana)

Il nostro giudizio

Acrimony è un film del 2018 diretto da Tyler Perry.

Acrimony è come un rebus per segamentalisti, che ha degli indizi qui e là, una lettera a mo’ di aiuto, un disegnino garbato che sottende qualcos’altro ma che poi, smontando e analizzando e sminuzzando, si scopre che non ha nemmeno una soluzione, o magari ne ha più di una. Uno scherzo, una chitarronata. È una situazione assai strana, a meno che non sia proprio questa capacità, cioè affabulare per nulla dire, raccontare senza narrare, ad aver fatto cascare Tyler Perry nel novero dei più pagati di Hollywood. Chi è costui? Mistero nel mistero. Attore, regista, afroamericano. Tutto qui. Non c’è praticamente nulla negli annali del cinema che lo abbia reso degno di studio storiografico, che lo abbia insignito dell’investitura non diciamo dei grandi, ma almeno degli importanti. C’è un Amore e sparatorie (2005), un Medea – Protezione testimoni (2012), una parte ne L’amore bugiardo (2014) che proprio cacca non era, e poi ci si perde nell’abisso del poco di tutto. Comunque, qui il nostro fa il regista. Gira a Pittsburgh, dove i bianchi si sono estinti e la conurbazione diventa palcoscenico del mondo afro: vicini di casa, netturbini, studenti e colleghi, tutti rigorosamente neri.

Si comincia in grande stile, con una ouverture degna di un francese: una donna (Taraji P. Henson, la matematica de Il diritto di contare, 2016) finisce in terapia per l’incapacità di gestire la rabbia. Divanetto da gente perbene, palazzi e grattacieli alto-borghesi oltre la vetrata, un lungo, prolisso e inutile piano sequenza racchiudente un dialogo da abbecedario psicoanalitico: «Le sembro lo stereotipo della donna negra incazzosa?». Risposta dell’analista: «Lei pensa di esserlo?». Quindi veniamo tartassati con un flashback sugli anni del college, quando la giovanissima protagonista (qui invece interpretata da Ajiona Alexus) conosce questo bellimbusto (Antonio Madison e Lyriq Bent nella versione senior) con il pallino delle invenzioni e uno smisurato interesse per il di lei conto in banca. Lui gliene combina di ogni, la tradisce, la sposa per accaparrarsi la grana e la casa, lavoricchia o non lavora affatto e lei zitta, manda giù e manda giù fino a quando la misura è colma.

Acrimony non è un noir, né una commedia, vorrebbe essere un dramma ma scimmiotta la televisione. Forse non è neppure colpa di Perry, che non ha un briciolo di talento e come tale va preso, ma della più perniciosa categoria cinematografica a cui tenta di ricondurre la sua operetta in salsa di perpetuo piagnisteo: la blaxploitation dura e pura, quella roba che si fa per un pubblico nero e che rifiuta la “bianchezza” per le stesse questioni di orgoglio etnico che, in mano a un bianco, farebbero storcere il naso a qualsiasi progressista. Se The Help (2011) o il già citato Il diritto di contare avevano dalla loro l’accomodante untume di vaselina, debitamente spalmata sul sedere della borghesia bianca che rideva come al circo, questo Acrimony segue una strada tutta sua, quella della chiusura, della barricata. E sì, i suoi protagonisti sono tutti brutti, stereotipati come le preoccupazioni della protagonista, animaleschi e incapaci di recitare. Perché, ci si domanda, quando un negro fa il negro, cioè interpreta la parte di se stesso, deve arrampicarsi sugli alberi o correre a sbucciare le banane? Perry non ha capito, non vuole capire né gli conviene, che in questo modo il suo cinema si fa cassetta, piccolo schermo, si restringe fino a trasformarsi in una parodia scioccherella della famiglia Robinson. Che però ha avuto il suo successo anche e grazie al pubblico bianco.