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13

2017
Titolo Originale:
13 Reasons Why
CAST:
Dylan Minnette (Clay Jensen)
Katherine Langford (Hannah Baker)
Christian Navarro (Tony Padilla)

Il nostro giudizio

13 è una serie tv del 2017, ideata da Brian Yorkey

Il numero 13, presso lo gnosticismo più estremo, è il numero della Morte: la divinità che, grazie al taglio netto in grado di recidere ogni legame con il regno demiurgico del cosmo, attua un abbandono definitivo della dimensione dell’inganno, dell’ignoranza e della sopraffazione. La Nera Signora del disprezzo e del caos, rivolti non solo contro il mondo degli uomini, ma contro l’intero complesso degli enti, contro l’ente stesso. Principiando dal numero contenuto all’interno del titolo di questa interessante serie, è possibile tentarne un’analisi sicuramente inconsueta, ma forse utile per una lettura che non rimanga irretita nella superficie dei temi più evidenti: bullismo, violenza, suicidio, sostanze stupefacenti, disagio giovanile. La storia di Hannah dipinge i tratti di una persona che, forse inconsapevolmente a causa della sua giovane età, raggiunto un certo livello di sopportazione della insensatezza e della miseria umana, decide di varcare quella soglia oltre la quale l’influenza del mondo pare ‒ ma nessuno può esserne sicuro ‒ definitivamente elusa e tacitata. Nel confronto con l’adulto counselor scolastico la ragazza rifiuta palesemente le coordinate spazio-temporali: non vuole differire la sua libertà ad altro tempo, quando lo stupratore avrà terminato la scuola, o collocarla in altro luogo, magari trasferendosi in un altro istituto. La verità deve essere qui e ora. Ma la pura verità, e la libertà che con essa coincide, non possono abitare qui: per lei sono inevitabilmente Altrove. L’adulto, tra l’altro, fallisce miseramente la prova a cui è sottoposto ‒ cercare la verità del nome che non viene rivelato dalla vittima; generoso solo fin laddove lo spinge il dovere della professione o il ruolo di genitore, ma goffamente distratto dagli apparati telefonici e forse timoroso di perdere il lavoro.

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Hannah sembra perseguire con rigore il proprio martirio, fisico e psicologico, interrogando la vita e la varia umanità che la abita. Lacerata nel corpo e nell’anima, per affermare la verità che porta in sé, la ragazza si trasforma in una ferita totale e trasfigurante: evoca quella Morte che finisce per collocarla in un’altra dimensione, dalla quale può essere lei a dettare le regole del gioco. Se in vita la protagonista ha assecondato un destino avverso, consentendo ad esso come nelle migliori quêtes, la morte è il “luogo” in cui ella pare regnare libera e sovrana, e da cui può finalmente portare a effetto il proprio giudizio. L’essenza di Hannah, nel suo transito mondano, è quella di essere una ferita, una lacerazione alla quale corrispondono soltanto coloro che, attraverso tali aperture, si pongono in contatto con la dimensione segreta del caos. A causa della centralità di questo concetto, è stata corretta la scelta di mutare le modalità del suicidio rispetto al romanzo da cui la serie è tratta e, per la stessa ragione, è stato opportuno mostrare senza attenuazioni la scena della lacerazione fatale. Colui che risponde in modo più sentito ad Hannah è Clay, l’altro protagonista della vicenda. Ci siamo tutti chiesti per quale motivo il ragazzo non ascolti in una sola notte le cassette lasciate dalla protagonista, al fine di progettare la sua azione in un secondo momento. Quello che è, a tutti gli effetti, un espediente per costruire la vicenda rivela anche una chiara valenza teoretica. Clay corrisponde a colui che procede per gradi nella cerca della verità, costruendo per tappe successive la propria Bildung. Inoltre, la sua interazione con la realtà si costituisce attraverso un rapporto immediato di ragione e volontà: a ogni acquisizione sul piano razionale deve seguire un’azione nel mondo fisico, assecondando in ciò le indicazioni delle cassette, che rimandano a una mappa fatta di luoghi dell’esperienza, stazioni di un calvario personale.

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Dopo la lacerazione mortale di Hannah, apertura sulla dimensione caotica che integra la realtà segnandone drammaticamente i momenti di discontinuità, Clay è contraddistinto da una ferita che porta sul volto – tanto che il suo viso segnato rappresenta il marchio che ci permette di capire in quale spazio temporale ci troviamo, ovvero ci comunica se la narrazione si riferisce a un momento che precede o segue il suicidio della protagonista. All’interno della percezione temporale dello spettatore, la ferita di Clay interviene a spezzare la continuità narrativa dell’intreccio sostenuta dai numerosi ed efficaci raccordi: l’identità temporale indifferenziata è solcata indelebilmente da quell’evidente segno distintivo. Per di più, Clay, al fine di attingere alla verità e confermare la stessa verità trasmessa da Hannah, si fa picchiare duramente dal cattivo della serie, aggiungendo ulteriori ferite a quella che già conosciamo, aprendo ulteriormente la sua lacerazione personale. Inoltre, modificando il piano di diffusione delle cassette stabilito dalla ragazza, il protagonista non solo aderisce alla verità della sua giovane amica, ma ne migliora gli effetti: salda la fatale alleanza e amplia lo squarcio dimensionale. Sull’asse Hannah-Clay si collocano altri due personaggi, che possiamo riconoscere dal marchio della ferita. Si tratta di Skye, segnata dai tagli che porta sui polsi, e di Jeff, che muore in un tragico incidente stradale. Skye è una ragazza alternativa e irregolare, degna rappresentante della stirpe di coloro che non si adattano; la sua è, per Clay, una presenza severa ma vicina, silenziosa e costante.

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Alla fine delle vicende narrate nella prima stagione, il protagonista si avvicinerà decisivamente a Skye, riconoscendo in lei una persona simile ad Hannah. Jeff si dimostra un sincero e affettuoso amico per Clay, e si impegna con generosità per propiziare una svolta nel rapporto tra i due protagonisti. Gli altri personaggi si situano altrove rispetto a questo asse anticosmico: sono i rappresentanti della varia umanità che abita il mondo borghese e che favorisce il suicidio di Hannah. Dal cattivo Bryce, campione arrogante e stupratore, a Jessica, che cela anche a se stessa la violenza subita; da Justin, problematico sodale del villain, a Zach, sportivo e imbecille; dall’arrivista Marcus all’ipocrita Courtney; da Ryan, poeta perfido e sensibile, a Sheri, che in fondo si ravvede; da Alex, alternativo ma debole e succube, a Tyler, fotografo guardone e squilibrato. A quest’ultimo, folle angelo sterminatore, pare indirettamente affidato da Hannah il compito di realizzare una strage finale, possibile coronamento supremo della sua vendetta. Una menzione particolare merita Tony, personaggio che si colloca a metà strada tra una sincera amicizia con Clay, di cui è una sorta di fratello maggiore, e il timore di prendere una posizione netta e di attingere pienamente alla verità ultima. Probabilmente, Tony rappresenta lo sguardo del regista, imparziale ma non del tutto distaccato. Da segnalare sono anche le figure dei genitori dei due protagonisti; dipinte con convincente spessore psicologico, sono contraddistinte da un affetto irrimediabilmente segnato dall’incapacità di comprendere la verità, alla quale si approcciano con sincera cura, ma con strumenti inadeguati.

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La prima stagione della serie 13, prodotto molto avvincente ed estremamente interessante – non privo, tuttavia, di alcune pecche e non esente da qualche ingenuità –, si colloca, secondo la presente analisi, nella direzione idealmente marcata da Martyrs (2008) di Pascal Laugier, da un lato, e da Elephant (2003) di Gus Van Sant, dall’altro. Se nel primo film il rapporto con la morte è considerato secondo una prospettiva mistica e il mondo borghese risulta ridotto al silenzio dall’assordante Nulla divino, e se nel secondo sono messe in opera l’attesa e l’inveramento della catastrofe senza curarsi di individuare un principio del male, 13 coniuga il tema della morte come contatto con una dimensione di superiore pienezza e verità con l’effetto che la presenza e l’apparizione di tale dimensione causano, attraverso il vettore della vendetta, sul crudele consorzio umano e sui suoi ciechi attori. La carica antiborghese del film è, per altro, sottolineata anche da chiari rimandi a pellicole come Fight Club (1999) di David Fincher e American Beauty (1999) di Sam Mendes. Ma siamo davvero sicuri che il gesto di Hannah sia frutto di mera inconsapevolezza giovanile? La scelta estrema del Freitod racchiude sempre un grado di incoscienza e debolezza, ma la ragazza sembra aver considerato a fondo la propria situazione; di certo continua con temerarietà e spietatezza ‒ in primis nei confronti della propria forma umana ‒ a sondare il destino e valuta con sguardo impietoso il mondo che la circonda.

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E, non è cosa da poco (si tratta, tra l’altro, del nucleo attorno al quale è costruita la prima stagione di questa serie), architetta con estrema perizia e arguta meticolosità ciò che si rovescerà sugli altri personaggi ‒ presenze care e familiari, amici, conoscenti, aguzzini, persone buone o cattive, nobili o spregevoli, di valore o insignificanti ‒ dopo averli accuratamente interrogati, scrupolosamente valutati e definitivamente giudicati. Difficile non leggere in 13, oltre a una difesa di chi è radicalmente differente, una magnifica o magniloquente ‒ giudichi lo spettatore, più o meno ispirato ‒ esaltazione del suicidio: chi era stato violato e bandito sulla terra, subendo la legge insensata di questo mondo, ora, potente e sovrano, regna dall’aldilà su quella stessa terra che l’aveva esiliato, e rovescia su di essa e sui suoi abitanti tutto il proprio disprezzo ‒ preservando soltanto chi riconosce come spiritualmente consanguineo: colui che appartiene alla “stirpe che non vacilla”, colui che porta il pesante marchio della lacerazione.