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10×10

2018
Titolo Originale:
10x10
REGIA:
Suzi Ewing
CAST:
Luke Evans (Lewis)
Kelly Reilly (Cathy)
Noel Clarke (Dennis)

Il nostro giudizio

10×10 è un film del 2018, diretto da Suzi Ewing.

Se vuoi qualcosa, allora vattela a prendere! E non importa che sia un oggetto o un essere umano. A maggior ragione, poi, se si tratta di una bella donna! Questo deve aver pensato, nel pieno della sua (apparente) pazzia, quel tipaccio poco raccomandabile di Lewis (Luke Evans), protagonista di 10×10, talmente ossessionato dalla giovane e innocente (?!) Cathy (Kelly Reilly) al punto da rapirla e imprigionarla all’interno di un’angusta stanza insonorizzata – la cui misura è opportunamente indicata dal titolo – occultata nei meandri di un’immensa magione dall’asettica architettura minimalista, salvo accorgersi, ben presto, che l’avvenente preda risulta essere tutt’altro che mansueta. Ma le cose sono proprio così come appaiono, oppure, sotto sotto, i ruoli di vittima e carnefice non risultano poi così tanto scontati? Il trap movie è un genere alquanto infido e sottilmente bastardo, rigogliosamente germogliato sull’onda lunga di quel piccolo folgorante capolavoro che fu Saw (2004) e indecorosamente bruciatosi, nel giro di poco meno di un decennio, a causa, soprattutto, di una schiera apparentemente infinita di zoppi emuli, del tutto privi di qualunque barlume di originalità.

E, a essere del tutto sinceri, anche questo 10×10 non parte certo all’insegna della freschezza, facendo presagire – almeno nel primo quarto d’ora – un ennesimo racconto fatto di rapimenti, imprigionamenti, qualche monologo delirante del (più o meno) pazzoide di turno e la consueta lotta catartica finale, con conseguente vittoria del buono e relativa dipartita del cattivaccio, salvo progetti di sequel o quant’altro. Però, mano a mano che i minuti scorrono e gli eventi iniziano a prendere una piega alquanto intrigante, ecco che l’esordio al lungometraggio della britannica Suzi Ewing acquista una propria ragion d’essere, grazie alla caparbietà di uno script ad opera nientemeno che di Noel Clarke (Mute, Star Trek – Into Darkness) che, partendo dal classico filone delle passioni tenute (letteralmente) sotto chiave – da La Gabbia (1985) di Patroni Griffi ai più recenti Chained (2012) e Berlin Syndrome (2017) –, si muove fiero e sicuro verso quel clima d’indecifrabile e malsana perturbazione che, tanto in La scomparsa di Alice Creed (2009) quanto nel destabilizzante Pet (2016), già obbligava lo spettatore a dover rivedere le proprie convinzioni circa la vera natura di vessatore e vessato. Certo, le debolezze e le cadute di tono non mancano, soprattutto se si tiene conto di una certa insistita mono-espressività da parte di entrambi i protagonisti che rende pressoché impossibile ogni forma di empatia o di identificazione da parte dello spettatore, alla quale si aggiunge un ritmo visivo alquanto appesantito da un montaggio non sempre all’altezza della progressiva escalation tensivo-drammatica che la pellicola inizia a coltivare con un certo gusto e mestiere.

Ma, per sopperire a queste piccole (o grandi?) mancanze, ecco venire in soccorso una suggestiva confezione estetica – impreziosita dalla fredda e matematica fotografia di Aaron Reid, attentissimo al design techno-minimal che ricorda sorprendentemente il setting di Ex Machina (2015) – e sequenze di lotta corpo-a-corpo fra le più coinvolgenti ed estenuanti che il grande schermo ci abbia mai regalato. Mai, prima di oggi, infatti, un personaggio maschile dell’universo cine-televisivo avrebbe pensato di poter prendere una tale sacca di legnate (e coltellate) da un così apparentemente inerme scricciolo di donna! Onesto, competente e, perché no, anche genuinamente godibile, 10×10 trova la propria forza nella (tutt’altro che scontata) capacità di non cadere troppo nella banalità, nonostante una struttura già di per sé più che collaudata, regalando ottantotto minuti di sano relax a suon di calci, pugni, tafferugli e qualche sordido intrigo da svelare, un esercizio mentale oggi più che mai necessario a risvegliare lo spettator dormiente dal torpore dell’avvolgente mediocrità delle immagini in movimento.