Maschio, Femmina, Fiore, Frutto

Il cinema gay e il cinema lesbo a confronto con la rappresentazione del sesso esplicito, fino ai più recenti successi di critica e pubblico di Lo sconosciuto del lago e La vita di Adele...
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Il clamore suscitato da Lo sconosciuto del lago (2013) di Alain Guiraudie, alla 66ª edizione del Festival di Cannes, dove ha vinto la Queer Palm e il premio per la regia, ci serve per fare il punto sulla cinematografia gay che a partire dagli anni 70 ha guadagnato sempre più spessore, alternando e giocando su doppi binari. Per un verso ci sono stati film che hanno affrontato il “tema” tenendo d’occhio e puntando a un pubblico eterogeneo e il più esteso possibile, dall’altro hanno invece trovato spazio prodotti fatti esclusivamente per un pubblico più ristretto, di nicchia e prevalentemente omosessuale. Questa differenziazione è stata fondamentale per un certo periodo, anche perché, essendo principalmente un cinema tematico, il più delle volte si è preferito un cinema di contenuti e poca forma, per certi versi anche “ politicamente militante”, quasi che una scrittura filmica troppo ricercata ed elaborata potesse offuscare l’urgenza e l’importanza dell’argomento. In questo senso il film di Guiraudie può rappresentare una sorta di sintesi in cui la forma si fonde con il contenuto e un’idea di cinema autoriale molto personale si coniuga con immagini esplicitamente hard-core.

Dopo la prima fase di stupore e scandalo di un capolavoro come Sebastiane di Derek Jarman (1976) girato in latino e sicuramente fondamento paradigmatico di tutta un’estetica queer, la cinematografia gay ha avuto la sua massima esplosione ed esposizione negli anni 80, dove nudità maschile e sesso esplicito sono state le cifre stilistiche di film come Taxi zum Klo (1980) di Frank Ripploh e Cruising (1980) di William Friedkin, per culminare nel testamento monumentale di un autore immenso come Fassbinder che con Querelle de Brest (1982) in un certo senso chiude questo primo ciclo.
A proposito del film di Friedkin, il divo del momento, l’onnipresente James Franco, con  Interior. Leather Bar (2013) ha voluto “recuperare” le effusioni hard-core-gay mai montate nella versione definitiva di Cruising (1980); per contestare – dice Franco – all’establishment hollywoodiano un’intollerante visione omofobica mirata a censurare l’arte. Franco e il co-regista Travis Mathews, hanno dichiarato candidamente di non aver mai visto (come tutti) le scene incriminate e di non aver alcun’altra traccia se non il sentito dire. Quindi? Quindi una sequela di espliciti rapporti più o meno sadomasochisti consumati all’interno di sudatissimi teatri di posa, inframmezzati dalle crisi di coscienza dell’attore protagonista Val Lauren (che fa Pacino) e dai deliri filosofici del Franco regista, preoccupato unicamente di aggiungere un nuovo fregio al monumento che sta dedicando a se stesso.

Nel momento in cui il cinema gay si stava normalizzando e in un certo senso imborghesendo (pensiamo ad autori come Almodovar con La legge del desiderio – 1987 – e James Ivory con Maurice – 1987 –, ma anche a inaspettati successi commerciali come Amici, complici, amanti – 1988 – di Paul Bogart) scoppia l’AIDS che con le sue vittime, eccellenti e non, rende particolarmente incandescente e d’attualità il tema. Anche Hollywood (uno studio storico come la Columbia) si confronta sul tema e confeziona un solido prodotto da Oscar dove l’impegno civile, la discriminazione sessuale  e una forte denuncia contro l’ipocrisia benpensante scuote le coscienze di tutto il mondo: Philadelphia (1993) di Jonathan Demme.
Nello stesso anno in Francia fa molto clamore Les nuits fauves (Notti Selvagge, 1993) di Cyrill Collard, tratto dal suo romanzo omonimo e autobiografico, con al centro della vicenda un ragazzo con tendenze bisessuali che si innamora di una ragazza e ha rapporti con lei, pur sapendo di essere sieropositivo. Quando lei lo scopre, dapprima reagisce con rabbia, poi accetta la situazione. Un film controverso. In Francia il realismo della storia ha creato scalpore, con sequenze di sesso sia omo che etero esplicito e anche di gruppo,  mentre i premi César vinti dopo la morte per AIDS dell’autore-regista-attore Collard hanno fatto gridare al capolavoro. Pare che Collard avesse proposto la parte principale ad alcuni attori francesi, che però hanno trovato la storia troppo realistica. Collard ha girato il film sapendosi condannato, dunque senza alcuna inibizione e senza moralismi, il che gli dà una forza narrativa veramente potente.

 

IL METODO LABRUCE

Metabolizzato e superato il dramma dell’AIDS (nel ’95 si trovano i farmaci che non lo rendono più letale), il cinema gay prende un’altra accelerazione diversificandosi sempre in film da circuito (festival e cinema d’essai) e in produzioni porno particolarmente accurate e di un certo budget anche grazie a internet, che ha il gran pregio di tenere anonimi i fruitori. In questi anni si rivela la personalità eclettica di Bruce LaBruce, un artista canadese polivalente che spazia dalla scrittura alla fotografia e che può rappresentare in toto il punto di arrivo della cinematografia gay: proprio per il suo saltare da un binario all’altro, per saper mischiare cinefilia e trasgressione, pathos e irriverenza in continua contaminazione con il porno. È come se dal cinema porno prendesse la linfa vitale, oltre che l’ispirazione e gli attori.
No Skin Off My Ass (1991), il suo primo lungometraggio, è la storia della relazione tra un parrucchiere (interpretato dallo stesso LaBruce) e un giovane e attraente skinhead muto. Il film diventa subito un cult. Poi arriva  Super 8½ (1994), dove un pornostar vede la propria carriera andare a picco a causa della sua incapacità di conciliare il suo lavoro di attore hard con l’amore e la passione per il cinema (una sorta di parodia del capolavoro felliniano).
Ormai cineasta di culto, nel 1996 realizza Hustler White e il film ha la sua prima al Sundance Film Festival di San Francisco, diventando subito popolare nel circuito internazionale dei Festivals. LaBruce interpreta Jurgen Anger, un gay straniero che visita Los Angeles per farsi un’idea del giro della prostituzione a Santa Monica Boulevard, il tutto con pretese prettamente antropologiche. Quando Jurgen, però, incontra il marchettaro Montgomery (Tony Ward, un modello all’epoca molto popolare per aver partecipato ai videoclip Justify My Love e Erotica e al libro fotografico Sex con Madonna), è amore a prima vista. Il film ha un divertito e compiaciuto sapore cinematografico con citazioni classiche (l’inizio con il cadavere in piscina tipo Viale del tramonto, l’estetica del corpo maschile come American Gigolò, una love story controversa e improbabile tipo Pretty Woman) e sequenze di sesso esplicito e bizzarro che culminano con un’insolita sodomizzazione “focomelica”.

Nel 1998 LaBruce gira il suo primo film porno vero e proprio: Skin Flick, prodotto dalla Cazzo Film di Berlino (una vera label leader del settore). Racconta la storia di una gang di skinheads che sconvolge la vita di una coppia gay borghese, mettendo in scena atti di vero e proprio terrorismo sessuale. Con Otto; or, Up With Dead People, presentato nel 2008 al Sundance Film Festival e al Festival di Berlino, racconta le vicissitudini di Otto, adolescente tedesco zombie e gay, che vaga senza identità e una precisa meta cibandosi di carcasse di animali: un riuscito cocktail metalinguistico dove si sente l’influenza del burtoniano Ed Wood, in un gioco di citazioni e rimandi con scene particolarmente forti di cannibalismo erotico e un’inedita orgia zombie-gay.
Su questa stessa ispirazione nel 2010 produce e dirige L.A. Zombie, su un homeless schizofrenico e mentalmente disturbato che pensa di essere uno zombi alieno mandato sulla Terra. Vaga per le strade di Los Angeles in cerca di cadaveri, con l’intento di avere prestazioni omosessuali e infine cibarsene. Attraverso questo atto, egli è in grado di riportare i morti alla vita. La bravura di LaBruce si sviluppa in un esercizio vagamente lynchiano dove mistero e ambiguità caricano un’atmosfera solarmente lugubre che si avvita sul dubbio: si tratta davvero di uno zombi o semplicemente di uno psicopatico in preda alle allucinazioni? Bandito da vari festival con l’accusa di oscenità e inneggiamento alla necrofilia, il film conta la presenza della gay-pornostar francese François Sagat (“munito” di un fallo di gomma stile Brass!) che si avvia a diventare un’icona gay mondiale.

Nel 2013 LaBruce sembra abbandonare la sua vena porno e gira una sorta di Harold & Maude in versione gay, Gerontophilia – un ragazzo assunto in una casa di riposo subisce un’attrazione romantica e sessuale per il signor Peabody, un anziano ospite dell’ospizio. Niente sesso esplicito per un film delicato e intimista, quasi a voler continuare il suo discorso di diversità e solitudine in un contesto più accessibile al grande pubblico. Presentato all’ultima Mostra del Cinema di Venezia.

 

IL FANTASMA

Certo che nel 2000 la Laguna restò veramente paralizzata davanti al film portoghese O Fantasma di João Pedro Rodrigues, presentato nella competizione per il Leone d’Oro e fortemente voluto dall’allora direttore Alberto Barbera. Sergio è uno spazzino e lavora a Lisbona, un individuo anonimo, che vive di notte, solitario e silenzioso, produce e si nutre di sporcizia. Come un topo di fogna, è disprezzabile e invisibile. Sfoga le sue perversioni indossando una tuta nera, e, come il suo cane Lord, è disposto a umiliarsi oltre ogni limite, frugando nell’immondizia, bevendo acqua di pozzanghera.
Il regista non ha nessuna intenzione di provocare né scandalizzare, la sua regia è rigorosa ed essenziale: vuole raccontare di un’ossessione, dell’amato e del desiderio che spinge a impossessarsi di tutto ciò che il corpo dell’altro ha sfiorato. Un’ossessione notturna che mischia desideri e pulsioni con continue confusioni tra il sogno e l’incubo e la sfrontatezza del sesso così realistico da divenire astratto. Gli attori sono tutti non professionisti e nessuno di loro ha avuto problemi a confrontarsi con la storia anche nei momenti più espliciti, in quelle scene che evitano le ambiguità e non ricorrono a ellissi o metafore, in cui mostrare esplicitamente il sesso diviene scelta etica ed estetica.
Il racconto passa attraverso il sesso, non come provocazione, ma perché la sessualità fa parte della vita. La fisicità, il corpo, le fantasie più intime sono parte essenziale del progetto e la macchina da presa del regista li filma con naturalezza come se potessero essere riprese solo in questo modo. Le immagini “pornografiche” diventano immagini comuni, “normali” e perdono ogni valenza erotica.

In questi ultimi vent’anni la cinematografia gay ha certamente smesso di essere marginale ed emarginata, seguendo di pari passo l’evoluzione del costume e dei comportamenti sociali; tutto ciò che poteva sembrare trasgressivo e osceno negli anni 70 ora è diventato “normale”, accettato e fruito in tutte le sue forme e nei più svariati mezzi di comunicazione, e lo straordinario successo di I segreti di Brokeback Mountain (2005) di Ang Lee è la conferma di ciò (anche se ogni volta che viene trasmesso in TV in prima serata il bacio dei cow-boys è regolarmente censurato) e in televisione spopola la serie OZ (sei stagioni per 56 episodi dal 1997 al 2003), prodotta dalla HBO, ambientata in un penitenziario di massima sicurezza dove sesso e violenza vengono raccontati con estremo realismo e crudezza, impiegando star televisive tra cui spicca Christopher Meloni (preso direttamente dalla serie poliziesca Law & Order).
Ma a decretare il successo o meno di questi prodotti non è più l’elemento erotico e scopofolico di corpi e situazioni, ma la contestualizzazione e il discorso che viene fatto; la tematica omosessuale, proprio perché ormai presente anche nelle soap-opera pomeridiane o nelle fiction Rai di prima serata, non è più un’attrattiva e tantomeno un tabù; la visione del corpo maschile, dei glutei, bicipiti e pene  (proprio per il proliferare di esibizioni in pubblicità, videoclip e servizi fotografici) fa parte della nostra vita quotidiana, noi stessi possiamo fotografarci, filmarci ed esibirci… avere una vita pornografica.

Forse per questo è passato del tutto inosservato un film molto interessante del 2006, Shortbus di John Cameron Mitchell, che raccontava dell’erotizzazione che caratterizza la nostra epoca. Forse il successo di Lo sconosciuto del lago è arrivato nel momento giusto, con i tempi maturi per accettare questo tipo di sessualità, di situazioni  e di relazioni in un  mondo quotidiano, dove i protagonisti possono essere il nostro vicino di casa, l’idraulico e l’impiegato delle poste,  mettendo nel giusto equilibrio eros/thanatos, dando al sesso fatto tra maschi un senso di naturalezza che riporta ai giochi adolescenziali, con però il pericolo che questo gioco possa trasformarsi in qualcosa di tragico e irreversibile.