Martyrs: oltre il sangue, la pelle e gli occhi dei martiri

Martyrs di Pascal Laugier: il cinema-estremo sperimenta la strada del misticismo per concludere che il mondo ultrafanico, se anche esiste, non è comunicabile, documentabile, trasmissibile
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E tu vivrai nel terrore dell’aldilà. Da Internet cara nostra apprendiamo che l’insigne avvocato Gino Trespioli, trapassato nel 1939, dedicò parte importante della sua vita agli studi ultrafanici, e anche da morto alacremente produsse testimonianza della Verità dell’Oltre, con lettere dettate alla medium sua sodale Bice Valbonesi (cit. Astrascienza.com). In una di queste scriveva: “Era un’altra conferma: e rividi lo spasimo di mille e mille arsi dalle fiamme, sanguinanti sotto la mannaia, fatti a brani dalle belve: non era strazio, era una serena fuga dalla materia, mentre le Anime belle ascendevano nella gioia della Luce.” Tersioli vedeva lo strazio dei corpi trasfigurato in ascesi mistica. La visione necessaria del dolore, la consapevolezza definitiva e la trasmissibilità della consapevolezza, se e come si possa raccontare ciò che si è visto. Qui la parola si rimpicciolisce a fonema primitivo, soccorrono le immagini. Martyrs di Pascal Laugier penetra da infiltrato in questo territorio, obbligandoci a guardare il martirio di Lucie e Anna, autoindotto ed eteroindotto, come visione dagli occhi che deve rimandare ad una visione nella mente, ad un fuori campo che è illusione di un fuori-spazio-tempo, ultrafanico dicevamo. Si è soliti inquadrare il film nel filone liquido del torture porn, genere codificato da Hostel in poi, invece no. Attaccati alle pareti, nelle viscere della casa, come una collezione di locandine di film horror, i poster riproducono squarci di storia e di realtà, istantanee di tortura e di omicidi: così Laugier prende politicamente le distanze dal filone inaugurato da Roth, essenzialmente reazionario, conservatore, rassicurante. Innocuo. Come un porno.

Martyrs è diverso: pulsa, perturba, stimola non solo per l’esibizione delle torture, ai limiti dell’asetticità (“volevo che tutto mantenesse un aspetto clinico quasi, anatomico”), ma anche perché è una visione diretta senza filtri, dalla finalità imperscrutabile eppure così scientificamente programmata. La stimolazione è erotica, in quanto da un impulso sensuale, visivo nella fattispecie, scaturisce la tensione al soddisfacimento di un desiderio, che in Martyrs è voyeurismo di conoscenza, chi e perché sta facendo tutto questo, quando e come finirà. Che è come dire: “stato di tensione ansiosa con cui si assiste al succedersi di fatti complicati, dei quali non si riesce a prevedere l’esito”, cioè la suspence secondo Hitchcock, cioè il DNA del cinema. A detta di Laugier, Martyrs viene pensato in un periodo di pessimismo cosmico e grande sofferenza psicologica, un vuoto di senso (“cosa bisogna farne di questo dolore universale che sembra mosso da un principio di movimento continuo che si genera da solo, c’è un fine per tutto questo?”), da cui il film sarebbe sgorgato, ribollente di rabbia sovversiva densa quanto una catarsi religiosa. L’approccio alla messa in scena del dolore richiama pertanto il padre naturale, non legittimo, del torture porn, quel Mel Gibson che con Passion concepì la visione del martirio come momento eucaristico, corpo e sangue di Cristo ricevuti attraverso gli occhi. Un film che è sicuramente nella videoteca della vecchiaccia a capo della setta, illusa della grandezza eterna dell’aldilà. Che, semplicemente, non esiste e viene rigettato insieme a Dio con forza e sdegno dalla visione estrema di Laugier.

Anna è martire perché ama. L’amore si trasforma in furia vendicativa, dandole la forza di sopportare e resistere a tutto il dolore del mondo per arrivare al nirvana definitivo, che è inequivocabilmente il compimento della vendetta, concretizzata bisbigliando la condanna all’orecchio della vecchiaccia. Ma la strada per arrivarci è umanamente insostenibile, proprio come la visione del film, spinta oltre i limiti della sopportazione. Anna ci riesce seguendo un percorso che è di trascendenza, profondo quanto quello dell’attraversamento del buco nero in Interstellar. Lassù (o laggiù?) il protagonista vedeva le persone o le entità amate, proprio come le vedrebbe un martire nel momento della trascendenza. In Martyrs la visione è ancora più straniante: siamo forse noi i martiri, siamo noi i testimoni, costretti a guardare le atrocità per costruirci da soli la rivelazione? Negando Dio, d’altronde, il climax del dolore massimo e le visioni presunte sono certamente una costruzione del cervello, come il mostro che tormenta Lucie è creato dalla sua mente. Se la visione che chiarisce tutto può nascere solo con l’intensificarsi progessrivo irreversibile (Irreversible di Gaspar Noé, altro film cui Martyrs è stato visivamente accostato)  delle torture e del dolore, allora assistervi con gli occhi sgranati, magari allontanare lo sguardo sconvolti, per poi riportarlo sullo schermo, può svelare le intenzioni forti, viscerali ma per niente mistiche, di Pascal Laugier. E ci potremmo sorprendere a riconoscere membri della setta ovunque: in televisione, negli uffici presidenziali, nelle chiese e nelle cliniche private. Anche davanti a noi, dietro lo specchio.