Mario Mercier e i riti erotici della papessa

Tra l’occulto e la cialtroneria trash, nelle pieghe di un film da scoprire
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Pittore, scrittore, studioso di occultismo e non ultimo cineasta – anche se su quest’ultima qualifica I detrattori più accesi avrebbero da ridire -, Mario Mercier (Nizza, 1945) è uno dei personaggi più curiosi e oscuri della cinematografia francese. Diplomatosi in regia alla Féderation Nationale des Cinéma Française e a soli 25 anni, con un budget ridottissimo (appena 5000 franchi) e in 16 mm, Mercier gira il suo primo film Les Dieux en colère, che resterà inedito nelle sale. Guadagna una certa notorietà per via dello scandalo suscitato dalla pubblicazione del suo primo romanzo, scritto mentre lavora come guardiano in un ospedale psichiatrico, Il diario di Jeanne, lodato da un intellettuale del calibro di André Pieyre de Mandiargues, ma ostracizzato dalla censura francese al punto che l’editore Eric Losfeld verrà condannato per diffusione di materiale osceno. Le cose non vanno meglio con i successivi La Nécrophile e La Cuvée de Singes, del tutto banditi in patria. Nel 1972 Mercier torna al cinema e dirige La Goulve (da noi La vergine e l’esorcista) primo capitolo di un dittico esoterico per il quale alcuni critici hanno utilizzato il termine “witch cinema”. Girato ancora una volta con risorse finanziarie limitatissime e attori improvvisati, La Goulve subisce le ingerenze del produttore Bepi Fontana, che impone l’inserimento di scene erotiche del tutto gratuite e stravolge il montaggio al fine di rendere il film più commerciale.

Con l’opera seconda, La Papesse, Mercier si lascia alle spalle i compromessi. Storia di plagi e di sette stregonesche, ambientata in una Francia rurale e inospitale, interpretata perlopiù da non professionisti, La Papesse sfoggia una fisicità disturbante, urlata, demente che lo distacca dalle pellicole erotico-fantastiche coeve. La messa in scena è sgrammaticata e ruvida, la trama è poco più che un labile appiglio (un uomo diviene adepto della setta cui è a capo Géziale e si sottopone a una serie di rituali; la moglie subisce ogni tipo di torture e sevizie; finirà male per entrambi) per una discesa in un mondo allucinato, fatto di iniziazioni, supplizi e rituali macabri. Al di là degli aspetti più crudi e scabrosi, per Mercier il pretesto stregonesco è soprattutto un mezzo per frugare nell’inconscio, in una sorta di favola amorale sadiana che mira a sconvolgere sistematicamente le certezze del pubblico, iniziando dalla rappresentazione di un microcosmo alieno alla nostra quotidianità (la setta di La Papesse contrappone al nostro universo moderno un matriarcato che conferisce a una donna il potere assoluto), e dipingendo il Bene e il Male come criteri variabili secondo il tipo di società, destinati alla fine a essere schiacciati.

«Film scioccante, degradante, indegno, aveva tutto per dispiacere allo spettatore medio il cui conformismo non ha bisogno di ulteriori dimostrazioni», scriverà a proposito di La Papesse il critico Jean-Pierre Fontana, aggiungendo, con entusiasmo indubbiamente esagerato: «coraggioso fino al punto di costituire un rifiuto flagrante della nostra società giudeo-cristiana (quindi delle sue strutture, delle sue leggi, dei suoi divieti, cause dei nostri fantasmi), sincero fino all’eccesso, distruttivo, questo film di stregoneria, in tutta la sua palese imperfezione, rappresenta un’opera indispensabile come lo furono gli scritti del Marchese De Sade, di Apollinaire o di Pauline Réage». E tuttavia, a dispetto degli innegabili limiti di scrittura e regia, La Papesse è un lavoro che colpisce nel profondo. In reazione a un cinema solo blandamente erotico, Mercier presenta un sistema in cui il sesso costituisce sia il motore sia l’epicentro, fino a sfumare impercettibilmente nella morte, e nella sequenza centrale del sabba, caratterizzata da repentini passaggi «in negativo», raggiunge un’intensità e una crudezza pressoché documentaristiche. Il regista aveva sparso la voce che la «papessa» Géziale e alcuni figuranti fossero veri adepti della setta: secondo André Stéger la donna era in realtà la sorellastra di Mercier, mentre i figuranti erano stati reclutati nei dintorni.

Allo spettatore non è chiesto di parteggiare per questo o quel personaggio, né gli si offre una progressione narrativa cui appassionarsi, bensì una successione di atrocità ardue da digerire. La povera vittima su cui si concentrano gran parte delle pratiche della congrega viene dapprima ripetutamente stuprata da un tizio in costume da gladiatore, rinchiusa come una bestia in una stalla, marchiata a fuoco, cosparsa di sangue di gallo (sgozzato realmente sul set), nuovamente posseduta nel mezzo della cerimonia da un altro adepto (il seme viene poi raccolto in una coppa libata dalla sacerdotessa), murata viva in una grotta (da cui uscirà pazza, dopo aver sognato d’essere violentata da un ripugnante uomo-avvoltoio) e infine sbranata da un cane. Per Christophe Bier, quello di Mercier «è un cinema brutto più che bis, primitivo e rozzo, che intervalla fantastico e atmosfera comunitaria, saggio poetico e reportage con un mélange sconcertante di seriosità papale e d’umorismo nerissimo. È probabilmente quest’ultimo (Aline marchiata a fuoco, obbligata a mangiare da un trogolo, violentata da un gladiatore), sommata all’esibizione di peli pubici durante un sabba che causò il rigetto del film e per un certo periodo la sua interdizione pura e semplice». Accade infatti che la Commissione di classificazione proibisce al film la circolazione domestica e l’esportazione per esortazione al crimine: «non è che una successione ininterrotta di scene di sadismo, di tortura e di violenza. Un disprezzo totale e permanente della persona umana, confezionato in maniera talmente grossolana e rivoltante che la Commissione propone l’interdizione totale» si legge in un verbale del 4 luglio ’74.

Dopo qualche taglio di alleggerimento, La Papesse è revisionato in appello, ma il parere negativo non muta. La decisione è confermata in data 1 agosto: la Commissione sottolinea come il film sia talmente sovraccarico di sequenze inaccettabili «che il controllo dei tagli effettivamente realizzarti non è parso […] convincente al punto da farle rivedere la decisione». Il 27 agosto, Valéry Giscard d’Estaing, in un discorso televisivo, promette l’abolizione della censura: ma il giorno dopo Mercier riceve una lettera del Ministro della cultura, che gli chiede di tagliare altri 190 metri di film. Quella sera stessa, un comunicato precisa che Giscard d’Estaing si riferiva alla censura politica. A favore di Mercier si muove il deputato Jacques Medecin, che domanda la revisione della decisione. Invano: il 5 settembre la Commissione conferma il verdetto, per bocca del Segretario di Stato alla cultura Françoise Giroud. La via crucis di La Papesse ha termine nell’aprile 1975, quando il film ottiene finalmente il visto censura. Un paio di mesi dopo, il 26 giugno 1975, il film di Mercier arriva alle commissioni di revisione italiane, per iniziativa della FOR Films s.r.l. di Giuseppe Forlani, col titolo I riti erotici della papessa Jesial: da notare che il nome di Géziale viene storpiato anche nella descrizione del soggetto, dove di volta in volta diventa indifferentemente Jezial o Jesial (ma qui e là fa capolino anche la grafia corretta). Il metraggio accertato è di 2580 metri, ossia all’incirca 94’. La III sezione, riunitasi il 30 giugno, ritiene di dover rilasciare a I riti erotici della papessa Jesial il visto di proiezione in pubblico con divieto ai minori di 18 anni «in considerazione del contenuto erotico del film, della rappresentazione di vicende sado-masochistiche e della espressione frequente di nudi, anche integrali». Richiede però alcuni tagli: l’«alleggerimento della scena del baccanale e, in particolare, alla eliminazione dei primi piani dei nudi femminili e della sequenza ove appare un uomo nudo che espone il membro virile». Il tutto per un totale di metri 15,50 (circa 32”). Munito di visto numero 66809 del 4/7/’75, il film di Mercier esce nelle sale italiane. Nel mentre, i guai in patria del film di Mercier continuano: classificato con la X il 13 febbraio 1976, viene proiettato al festival di fantascienza di Angoulême, dove provoca le reazioni incollerite degli spettatori, che si scagliano contro il regista e minacciano di distruggere la sala. Mercier non girerà più film. Negli anni, attorno ai suoi lavori si sviluppa un piccolo culto, grazie anche all’interesse di studiosi come Pete Tombs (nel volume Immoral Tales): l’11 settembre 2009 Les Dieux en colère viene finalmente proiettato all’étrange Festival.