Luigi Batzella e il fattore nazi di Ivan Kathansky

Luigi Batzella mette insieme due eroSSvastika applicando l’antica filosofia del recupero
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Il genere dell’erossvastika favoriva per qualche strana ragione le strategie predatorie e le soluzioni di compromesso, i trucchi, gli impiccetti, le scorciatoie del cinema di una volta, che negli anni Settanta si sarebbero dette ormai dimenticate. Invece no. Per un Garrone che nel 1976 rispolverava la filosofia obsoleta del pago uno e porto a casa due film, c’era un Luigi Batzella che riesumava il concetto di opera di “di recupero”:  prendere pezzi di un precedente film e con un minimo di aggiunte tirarne fuori uno nuovo. In Kaput Lager – Gli ultimi giorni delle SS le cose andarono così: Batzella girava per i produttori francesi Lesoeur, della Eurociné, una storia di guerra ambientata nel deserto, con protagonisti Richard Harrison e Gordon Mitchell (in Italia sarebbe uscita nel 1979 con il titolo Strategia per una missione di morte). La data delle riprese fu per forza antecedente al 1977, dal momento che il nazi di Batzella (firmato Ivan Kathanski)  contiene scene da Strategia per una missione di morte. In più, in Kaput Lager sono ricompresi anche brani di un vecchio film di guerra di Alfredo Rizzo, I giardini del Diavolo, del 1971; per cui la natura composita dell’operazione è ancora più estrema. Siamo in Africa: un gruppo di soldati americani viene fatto prigioniero e finisce in un lager gestito da un sadico colonnello delle SS (Gordon Mitchell) e da una dottoressa detta “la Jena del deserto”, interpretata da Lea Lander. Situazioni di vario sadismo dalla vita del campo, dopodiché uno degli americani, Lexman (Richard Harrison) architetta la fuga, durante la quale anche la perfida dottoressa viene trascinata via come ostaggio. La situazione volge al peggio per quasi tutti, tra fame, sete e imboscate. Restano in vita solo Lexman e la Jena che, nell’ultimissima sequenza prima dei titoli di coda, si vede conficcata nella sabbia, ai suoi piedi, una pala, con cui sarà costretta a scavarsi la fossa. In censura passa con il 18, previo taglio di metri 71,30 di pellicola che si fa fatica a capire che cosa contengano. Le scene più truci dovrebbero essere quelle in cui Micthell fa mettere, a Richardson, l’occhio allo spioncino di una porta della prigione oltre la quale alcuni beduini prigionieri vengono fustigati ed evirati. Nel lager africano le donne subiscono violenze del tipo che le mettono legate a un’asse, nude, con culo per aria, e dei soldati le strofinano con uno spazzolone. O se no, come capita alla povera Zaira Zoccheddu, sono fatte strisciare come vermi sul pavimento delle loro baracche e calpestate con gli stivali – e su questo concept disegnano anche i manifesti.. La Lander, sadica e lesbica che ha come amante-schiava l’infermiera Agnese Kalpagos, dà vita a un paio di situazioni grottesche e mal recitate, dove la Jena viene fustigata  e gode per i colpi della sottoposta. La quale – a quota tre nazi dopo i Garrone – insuffla energia a una sequenza decisamente hot, a letto, con Mike Monty che se la tromba assai realisticamente, mentre la Lander spia da dietro la porta masturbandosi smaniosa, sulle note di Lili Marleen.

Batzella come Mattei e come Garrone, mette la firma – Kathansky – a un secondo film, La bestia in calore, che passa in censura tardissimo, nel giugno del 1977, a virulenza del filone ormai scemata, ma che diventerà negli anni un reperto cult. Perché  la bestia in calore è una bestia vera, un reale prodigio di natura, non artefatto, non frutto di trucchi o tarocchi ma immanente, reale, tangibile e intelligibile. Ci si riferisce a Salvatore Baccaro, il Sal Boris o Boris Lugosi italiano, fioraio di Roccamandolfi affetto da acromegalia, vissuto in maniera folgorante nel cinema più bis, per i 40 anni in cui ebbe in regalo l’esistenza sulla Terra. Baccaro, sempre nudo in scena, è un essere irsuto, tozzo, dalla sessualità famelica, tenuto ingabbiato dalla sua creatrice, la dottoressa Kratsch, che lo corrobora con intramuscolari di uno strano farmaco per svilupparne l’appetito sessuale; e lo sfama gettandogli sotto giovani fanciulle da sacrificare alla sua debordante virilità. La bestia le violenta e poi si nutre dei loro peli pubici. La dottoressa è la belga Macha Magall, visino delizioso che nel cinema dell’epoca attirava a sé le peggio nefandezze per chissà quale virtù calamitante dei contrari –era quella che nel Comune senso del pudore di Sordi si faceva ingroppare dal cavallo bianco nel film nel film – e che qui fa una nazistona caricaturale nella perfidia – di quelle che quando ridono buttano la testa indietro e mostrano la gola –rifatta sul modello di Dyanne Thorne. Berretto aquilato, uniforme indossata a poil, calze nere e stivali, la Kratsch eccita i prigionieri legati e poi, quando non ne possono più, li castra con una baionetta. Al di fuori del quartier generale tedesco dove la dottoressa- colonnella  opera, l’azione si svolge per le stradine di un paesino laziale che i nazisti non fanno che rastrellare di continuo, ammazzando vecchi cristiani e bambini, e nelle campagne circonvicine, dove i partigiani si preparano a far pagare alla Kratsch e ai suoi accoliti il fio delle loro criminali porcate. E ci riusciranno. Al netto del mito che gli hanno eretto intorno, per Baccaro e non per altro, La bestia in calore è mediocre. E fatto da attori brutti: tolta la Magall, le ragazze che si vedono, sono carne da dozzina, prese evidentemente dove capitava. Anche le due ausiliari lesbiche che la Bestia si tiene vicino. Idem per gli interpreti maschili. Al confronto, il materiale umano che usavano Garrone o Mattei era roba di lusso – e in parte è vero, lo era. Anche arrivando alla ciccia, cioè a quello che dovrebbe essere così oltraggioso e secondo alcuni insostenibile, cioè alle sessioni – sovraffollatissime – di tortura, alle quali la dottoressa Kratsch sovraintende nelle segrete del suo quartier generale, insomma arrivando al top gore, l’effetto è obiettivamente più di ilarità che di raccapriccio: basta guardare la faccia della ragazza che urla quando le vengono strappate le unghie, mentre lì accanto una collega di disgrazia ha un paio di cavie spaurite adagiate sulla pancia (dovrebbero essere ratti famelici), un’altra ha un secchio infiammato legato all’addome e un’altra ancora degli elettrodi infilati nella vagina, con un soldato che gira, a mano, una macchinetta che dovrebbe produrre elettricità e dare alla sventurata micidiali scosse. A dirlo fa effetto, forse; a vederlo per niente.

La farsa diventa ancora più sensibile nel momento in cui, durante un rastrellamento, i tedeschi prendono un bambino in fasce e lo buttano per aria, facendo il tirassegno. Viene persino da chiedersi se non ci fosse il rischio che Batzella risolvesse apposta così, nel grottesco spinto. E ci si risponde da soli, drammaticamente, che no: Batzella faceva sul serio. Girato in Piemonte, La bestia in calore ha una storia interna interessante. Lunghissime sequenze, le parti più consistenti del metraggio, arrivano da una vecchia pellicola di guerra che Batzella aveva diretto nel 1970 Quando suona la campana; il 99% del cast è quello vecchio. Per le parti nuove con la Magall e con Baccaro, vengono utilizzati figuranti presi dalla strada e un paio di ballerine da night per i ruoli delle due kapò che affiancano la Kratsch. Questo si sa per la diretta testimonianza dell’organizzatore torinese che portò le attrici e supportò la produzione durante il soggiorno in Piemonte, che si concluse con la requisizione di una certa quantità di girato da parte del succitato personaggio, il quale, non pagato – né lui né alcun altro dei suoi figuranti e collaboratori – ripiccò la produzione in questa maniera. Il contenuto del materiale trattenuto era anche di natura decisamente hard e le entraîneuses erano state prese proprio perché disponibili a lasciarsi filmare in scene erotiche esplicite. Il che confermerebbe i sospetti circa l’esistenza, non solo per questo film in particolare, ma per molti erossvastika più in generale, di passaggi pornografici che si sposavano, del resto, benissimo con i contenuti così estremi delle trame.