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La sera a Roma

Autore:
Enrico Vanzina
Editore:
Mondadori

Il nostro giudizio

Giunge al termine di un incantevole tramonto: La sera a Roma, il nuovo romanzo di Enrico Vanzina edito da Mondadori, cala leggero sugli architettonici confini della Città Eterna come fosse un manto lieve. Istituendo un’ideale stagione del ricordo, segnando i canoni di una ritrovata geografia dell’anima, che purtroppo dura lo spazio di poche ore appena. Coprendo tutte le storture e le ingiustizie, le grandi bugie così come le verità minuscole, in un tempo e in un luogo nel quale ora più che mai s’avverte l’essenziale necessità di una pacificazione. L’armonia silenziosa e lenitiva invocata dal cogitabondo Caligola di Camus. Quella tangibile manifestazione della Pietas, nell’accezione pagana e personificata del termine, che reca in sé la misura dei diritti e il senso di ogni dovere. La grande bellezza della nostalgia è la protagonista assoluta di questo romanzo; posta al centro esatto di una trama a tinte fosche che si dipana lungo il ciclo delle diverse e lambite stagioni. Nell’età del dubbio dello sceneggiatore Federico, perso in una città che ormai non riconosce più, si insinuano l’interessata richiesta d’amicizia di uno scaltro samurai dell’Alta Finanza e la montante insoddisfazione di un palestrato giovanotto pugliese con velleità da attore. Si susseguono i reciproci tradimenti e i complotti di quei salotti romani ridotti a vuoti ma elegantissimi nidi di serpenti. E al termine di questa escogitata “circuizione” del protagonista, a corollario di un clima sempre più inquinato dai fatti di cronaca nera, giunge un delitto che chiama in causa l’onore dei nobili quanto la dignità degli ultimi. In una continua e bulimica ricerca, carnale e umorale fino all’ossessivo, tanto del senso della degradazione quanto del valore nobiliare. Del piacere misto allo spasmo, in una fuga momentanea dai propri ranghi, dalla propria prigione (… dorata o anodizzata che essa sia), dal proprio e già predetto destino.

Definire quale “giallo” questo nuovo canovaccio dell’autore romano non solo è ingeneroso ma risulta, addirittura, una vera e propria svista “cromatica”. Perché la chiave per accedere alla ricerca di questa “quinta stagione” evocata da Vanzina passa attraverso la capacità di scorgere quante più sfumature. Risiede già nella contemplazione della suggestiva immagine di copertina: un elegante interno-giorno nel quale la penombra sovrasta la stessa percezione delle forme, fino ad annullare la spietata dittatura del tempo. Aprendo una finestra sull’eternità. Cercando l’ultima luce del pomeriggio. Prima che sia troppo tardi. Prima che la sera ceda il passo alla lunga notte di questi anni. Perché a ogni capitolo il nume tutelare di Ennio Flaiano pare infonderci, dalle vie più trafficate ai ristorantini per pochi intimi, il coraggio necessario di chi è consapevole che il meglio sia ormai già passato. Federico, che sta scrivendo il copione di una commedia per un noto produttore, rischia di essere egli stesso preda di quelle tenebre. Lasciandosi sedurre dal baratro di un’indagine durante la quale ristabilire un qualsiasi ordine, per assurdo, vorrà dire risalire alle stesse radici dell’inarrestabile (fisiologico?) disfacimento urbano, morale, politico, antropologico…

Memore della grande lezione di Tom Wolfe, secondo la quale si fa sempre più urgente “…scrivere la storia dimenticata da tanti annalisti, quella dei costumi”, Enrico Vanzina ha imbastito un “giallo” che trascolora fino a giungere all’affresco di una quotidianità capitolina inquieta e inquietante. A metà tra le mobili baraonde del sulfureo Bosch e l’eccitata sensualità dei corpi smunti di Schiele. Un inestricabile intreccio di contaminazioni e sospetti, nel quale l’alto e il basso si scontrano e si confondono, fino a giungere agli eccessi morbosi della geometria non euclidea della passione. Lanciando il lettore in fuga da quella sterile “terra di mezzo” nella quale prevalgono i toni di grigio ed ogni buona azione, come da consolidata prassi italiana, non resterà mai impunita.