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C’era una volta il cinema. I miei film, la mia vita

Autore:
Noël Simsolo
Editore:
Il Saggiatore

Il nostro giudizio

Nel 2019 saranno passati trent’anni dalla morte di Sergio Leone. Cosa abbiamo fatto in tutti questi anni? Siamo andati a letto tardi, dopo aver visto tanto cinema diverso dal suo ma altrettanto da lui palesemente influenzato. E abbiamo continuato ad amarlo e a sognarlo.Un autore leggendario già in vita, dal successo popolare straordinario e contemporaneamente considerato da gran parte della critica tra i maggiori registi del dopoguerra. Si è detto e scritto tanto su Leone ma ancora c’è da dire, da studiare e da correggere. Come sempre per i grandi, del resto. In questi giorni è uscito questo volume, inaspettato: C’era una volta il cinema. I miei film, la mia vita. Si tratta di un libro-intervista a cura di Noël Simsolo, uscito nel 1987 in Francia per le edizioni di Cahiers du Cinéma con il titolo Conversations avec Sergio Leone. Il libro non era mai stato tradotto in Italia ed è davvero una buona notizia per gli amanti del suo cinema. Il titolo italiano, apparentemente banale nel riferimento ai suoi due celebri C’era una volta… (in Francia sono tre! Giù la testa è stato intitolato Il était une fois la révolution) è invece assolutamente perfetto nell’indicare uno degli elementi cardine del cinema leoniano: il tempo. Il tempo che è passato, la nostalgia per un mondo finito. L’intervista, 225 pagine, è molto ampia e permette di conoscere molto della sua vita e del suo lavoro fin dalle origini ovvero dal rapporto con i genitori ed il padre, regista del muto col nome d’arte di Roberto Roberti. Sergio nacque nel cinema e respirò cinema continuamente.

Il cinema italiano, del resto, lo sa chi l’ha studiato (o solo chi ha letto quel capolavoro che è stato L’avventurosa storia del cinema italiano di Goffredo Fofi e Franca Faldini), è stato da sempre una questione di famiglia e si è spessissimo tramandato di padre in figlio o diffuso per legami di parentela. Caratteristica, questa, legata al tanto vituperato familismo italiano ma certamente anche fondamento di quella specificità cinematografica italiana che tutti ci riconoscono (o almeno riconoscevano in un recente passato: “Cosa ha fatto il cinema italiano in tutti questi anni?”). È quindi naturale che Sergio Leone, cresciuto in quell’ambiente, possa iniziare, giovanissimo, a frequentare i set e ad assistere, ancora minorenne, moltissimi registi dei primi anni del dopoguerra. Nel 1945 Sergio fu, come racconta nel libro, il più giovane assistente alla regia d’Italia. Il lunghissimo apprendistato da assistente sarebbe un elemento da indagare maggiormente soprattutto per come ha influenzato la sua considerazione del cinema in generale. Il suo desiderio di “uccidere i generi”, come ha dichiarato più volte, ovvero il tentativo di “farla finita col peplum e con il western” in Il Colosso di Rodi e Per un pugno di dollari è qualcosa che è comprensibile solo se si conosce quanta sofferenza e stanchezza gli aveva procurato l’assistere registi come Mario Bonnard, autori di pellicole stancamente ripetitive all’interno di un genere inflazionato e in decadenza. La modernità di Leone sta proprio in questo: aver compreso che era possibile spingere verso l’estremo l’involontaria parodia dei pepla e fare un vero e proprio autodafé del genere. Principio che, attraverso il filtro di Goldoni, ha applicato, con risultati epocali, a quello che allora sembrava sinonimo di cinema e di U.S.A.: il western.

Simsolo è un intervistatore discreto, suggerisce, dà spunti ma non è invadente nè troppo presente. È un’ottima cosa data la debordante capacità affabulatoria di Leone che dimostra piacere nel raccontare aneddoti divertenti (alcuni dei quali davvero imperdibili) e storie che danno la misura di quanto il cinema sia stato, almeno in Italia, un’avventura fatta soprattutto di uomini, con le loro genialità e piccolezze, le loro difficoltà e i loro desideri, il loro senso di praticità coniugato all’enorme capacità di sognare. Ecco, il sogno. Il sogno e il tempo, gli elementi fondanti del cinema di Leone. C’era una volta in America è il film che più di ogni altro riesce ad essere il canto più alto e struggente al sogno e al tempo. Sono commoventi, tanto sono sentite, le parole che Leone trova in questo libro per dire quale sia il senso del sogno oppiaceo di Noodles e del sogno del cinema in quell’incredibile intrico temporale che è la sua sceneggiatura (nel quale gioco con il passato/futuro, tra le dodici mani che la scrissero, quelle di Kim Arcalli furono sicuramente decisive). L’oppio, dice Leone, è l’unica droga che faccia “sognare il futuro”. E leggendo questo libro imperdibile, che si divora e si beve come se si stesse ascoltando Omero che ci parla del cinema, capiamo ancora di più che da quel sogno non ci siamo svegliati, ipnotizzati da quel sorriso, il più bello, enigmatico e denso tra i finali di tutti i film. Quel sogno è il film intero, è il cinema intero. Un cinema che Leone, consapevole che per farlo si deve esserne figli, ha creato in omaggio ad un altro (quello americano dell’età dell’oro), ormai impossibile. Questo è (stato) il sogno, questo è (sarà) Sergio Leone.