Le lunghe notti della Gestapo: il nazi da teatro off

La deriva hard di Fabio De Agostini
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Lo stravagante Le lunghe notti della Gestapo, massacrato dalla censura ma premiato al botteghino. Tramontata la stagione del sangue, nel genere si fa sempre più massiccia la presenza del sesso, declinato con modalità ormai vicine all’hard.

Il 22 giugno del 1941 è il giorno che i libri di storia ricordano come quello dell’operazione Barbarossa, che segnò l’avvio della campagna nazista in Russia. L’epigrafe al termine delle Lunghe notti della Gestapo (che gioca, almeno nella versione italiana, con l’equivoco della notte dei lunghi coltelli che era avvenuta poco meno di dieci anni prima), ci informa che “alle ore 3,22 della mattina di quello stesso giorno, nel castello di Grunewald un massacro aveva posto fine a qualsiasi conato di opposizione ai piani del Furhrer da parte della borghesia e dell’intellighentia tedesche”. Fabio De Agostini ha l’ambizione di restituire esattamente quel che accadde nel corso di quella notte, in cui i sette maggiori rappresentanti della classe borghese tedesca danzarono sull’orlo dell’abisso, tra bagordi, orge e puttane. In sostanza questo è il sugo tematico del film, che sarebbe certificato dal libro autobiografico di tale Bertha Uhland, moglie dell’ufficiale che aveva organizzato, per conto della Gestapo, la notte di sesso e di morte con cui il Fuhrer si sarebbe sbarazzato della dissidenza interna. La realtà dei fatti è che Fabio De Agostini, giornalista-regista in entrambe le professioni eccentrico (Bellinzona 1933 – Roma 2009), sceneggia un proprio volume Dopo Rudolf Hess Solstizio di tenebre – memorie di Bertha Uhland, che risulta edito nel 1978, per l’editore Trevi – quindi dopo il film, al quale però preesiste, poiché nei crediti iniziali viene citato, compreso il nome dell’editore. Non l’abbiamo letto, ma nutriamo il legittimo sospetto che si tratti proprio della sceneggiatura del film. Comunque, il meccanismo è questo: dopo la fuga di Hess in Inghilterra, un uomo a lui vicino, lo Standartenführer SS Werner von Uhland (Enzo Miani) schiva il plotone di esecuzione prestandosi a organizzare il trappolone di cui sopra a danno dei sette grandi rappresentanti dell’economia e della borghesia, ostili a Hitler. Studiati i loro punti deboli (tutti afferenti, ovvio, alla sfera sessuale) e convocati tutti costoro in un castello, apparentemente per architettare un piano definitivo contro il Fuhrer, la Gestapo attende che i bagordi si scatenino grazie a delle ausiliare SS reclutate tra le più depravate della nazione, per alla fine intervenire con i mitra spianati e fare piazza pulita. Come appunto succederà.

Che non sia film fatto con due soldi, lo si nota subito. Il cinemascope gli dona molto ed enfatizza la cura della scenografia e dei costumi, nonché un certo studio delle inquadrature che contribuisce a creargli l’aura di qualcosa di più raffinato dei Garrone, dei Mattei o Batzella, che andavano subito al sodo e non si compiacevano di altri svolazzi. Le lunghe notti della Gestapo, invece, no: cerca una forma accattivante e persino raffinata per mostrare ciò che gli altri descrivevano con la grevità e la forza scabra della rozzezza. Ma serve, rispetto al film che deve essere, cioè a un erossvastika? Servono gli svolazzi? La rinuncia totale al sangue – l’unica scena un po’ così è quella in cui Almina De Sanzio viene strangolata durante un gioco erotico con Corrado Gaipa e un’altra ragazza – viene compensata alla grande con il sesso, offerto in dosi massicce e molto audace: si inizia con un grande lesbo, eccentrico, tra Isabelle Marchal e Paola Maiolini, che si succhiano reciprocamente la tetta in un simil 69, e si continua in crescendo con ciò che accade tra le mura del castello di Grunewald, dove sempre la Maiolini lo prende subito in bocca, come benvenuto, a Giorgio Cerioni – uno dei sette convitati – e poi con le labbra umide – insistenza dell’inquadratura, come a dire: “guardate il fluido che le è rimasto lì” – si lancia in un profondo bacio alla francese. Un’altra delle ausiliarie, Carla Schiavanovic – una faccia felliniana che, a quel che raccontava allora l’interessata sul set, con Fellini ci aveva effettivamente lavorato –, bionda, giunonica, è tra coloro che ne fanno di ogni e verso la fine viene trombata da Cerioni adagiata con la schiena sulla schiena di un vecchietto che la porta in giro per la stanza, mentre un musicante lì accanto suona il violino. Poi c’è Inga Alexandrova uncredited come al solito; anche nei nazi di Garone non figurava – che si esibisce di fronte ai commensali vestita solo di un body di calze a rete, con berretto nazi e baffetti alla Hitler, facendo prestidigitazioni con una pallina da ping pong.

La Csc Rosita Toros, che di solito appare rapsodicamente nei film, qui invece ha un bel ruolo di rilievo, è molto generosa di sé e compone dei quadretti erotici niente male: all’inizio, mentre stanno per fucilare Miani, slinguazza il revolver di un tipo che le sta dietro e in seguito, accesa da incontenibile libidine, si scopa un terzetto di collaboratori, sempre dardeggiando l’aria con una lingua serpentina. Il film è pienissimo di queste difformità e stravaganze, quadretti non-sense e tableaux vivants che sembrano parlare il linguaggio dei teatri sperimentali del periodo. Prodotto da Oscar Righini che piazza la sua donna, Francesca Righini, nella parte della moglie depressa di Miani, Le lunghe notti della Gestapo va assolutamente visto nella versione completa disponibile in dvd all’estero, mentre quella italiana è potentemente accorciata non solo di diverse sequenze hot – memorabile una scenetta allegorico-simbolica con la Marchall e la Maiolini (s)vestite da prussiane – ma di molti passaggi dialogici non irrilevanti per comprendere tutta la storia. Il film ebbe vicende censorie tormentate, soprattutto perché, mentre il produttore si diceva disposto ad effettuare la serie nutrita di tagli richiesti per il nulla osta, De Agostini faceva muro e dichiarava la propria assoluta indisponibilità a manomettere l’opera. La spuntò il produttore, però, e il film uscì decurtato e con il divieto ai 18, guadagnando comunque la non modestissima cifra di 272 milioni. Si può prendere agevolmente a pretesto il film di De Agostini per dire che i nazi italiani venivano venduti benissimo ovunque. Questo di De Agostini, per esempio, non c’è Paese in cui non sia uscito. Erano quindi un bel business, certamente, e ciò spiega perché ci si buttassero a pesce piccoli e meno piccoli, mestieranti e autori – un Canevari si inscrive senza meno tra i realizzatori-autori, idem per De Agostini, che ebbe visibili velleità intellettualoidi trattando di svastiche e di tette. Persino Alberto Cavallone andò vicinissimo a realizzare un nazi, con tutta probabilità quel “pacchetto” di due film che poi portò a compimento Sergio Garrone.