Le facce della morte 2015

I filmati dell’Isis ripropongono il tema della morte in diretta. E di ciò che i nostri occhi e il nostro cervello sono disposti ad accettare quando a essere in gioco non è più la finzione…
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Per André Bazin la rappresentazione cinematografica della morte reale è qualcosa di osceno. L’osceno, stante l’etimologia, è quello che dovrebbe stare al di fuori della scena, che non dovrebbe essere mostrato. La morte, come l’amore, cioè l’atto sessuale, nella cogitazione del filosofo francese, si vivono come “negazioni assolute del tempo oggettivo”. Morte e sesso, anzi più precisamente morte e orgasmo, che difatti i francesi esperti in questo tipo di elaborazioni concettuali, chiamano nella propria lingua la petite mort, “la piccola morte”. In sostanza, il cinema introducendo la categoria del tempo – il tempo della riproducibilità ad libitum, della ripetizione – in quegli atti che sono, invece, “l’istante qualitativo allo stato puro”, li viola, li stupra, li annienta. Li rende osceni. Oscenità morale, nel caso dell’amore, oscenità metafisica, in quello della morte.  Dentro al viluppo di questi concetti serpentiformi, viscidi, elusivi, sguscianti dalle mani e dalla testa, deve stare nascosta la ragione per cui possiamo mettere in fila e stringere in un’unità, interlacciando, interfacciando, interpretando tutto quello che va dall’esecuzione dell’elefantessa Topsy mediante elettricità filmata nel 1903 dalla Compagnia Cinematografica di Tommaso Alva Edison (uno in paragone al quale Ruggero Deodato era un dilettante), al pilota giordano arso vivo in una gabbia o ai prigionieri sgozzati sulle sponde meridionali del Mediterraneo dai carnefici appartenenti all’islamismo paranoico dell’Isis, in video che risalgono a pochissimi mese fa.

Questo dossier mi è balzato fuori dalla testa a mo’ della Minerva mitologica, dopo avere visto l’ultimo dei filmati snuff – per me lo sono – distribuiti in Rete dall’Isis. Quello del pilota giordano messo in una gabbia di ferro, cosparso di benzina, bruciato vivo e quindi sotterrato da un cumulo di macerie smosse da una escavatrice. I filmati dell’Isis fanno schifo. Non solo nel rispetto delle ignominie che rappresentano; fanno proprio schifo come estetica, e parlo di questa nuova tornata di macellazioni che non sono più come quella del povero Nick Berg, al quale i carnefici tagliavano il collo in un video diffuso nel 2011 e girato con un’unica inquadratura fissa, frontale, lurida e di pessima qualità. Quando vidi, allora, quella roba sozza e ruvida, pensai agli snuff. Pensai che per anni avevamo discettato, almanaccato, ipotizzato, scetticizzato sull’esistenza di quelle real things, cose reali, come le chiamavano, in cui un cristiano viene macellato a beneficio della cinepresa. Quelli che una volta si raccontava circolassero negli ambienti dei ricchi e viziosi, che pagavano una cifra per assistere a queste esecuzioni in diretta. La nostra cultura ne mantiene memoria grazie a film come Emanuelle in America o E tanta paura o Blue nude. Siamo cresciuti con questi sconci miti nella testa e negli occhi. Ora questo genere di cose ci piovono addosso da Internet, circolano sui social network, si fa fatica a non guardarli, ubiqui come sono. Si dovrebbe pagare per non vederli, per starsene alla larga, per non cadere nella tentazione del click. Ma partivo da questa nuova ondata di video, dove le vittime vestono di arancione e i carnefici, anzi il carnefice, quel John che si è scoperto avere studiato informatica in Inghilterra, a casa del nemico, prima di tornate in Medio Oriente ad affondare il coltello nella giugulare dei suoi olocausti. Sembra di assistere a riprese di un film. Un brutto film, d’accordo, una roba al livello delle cialtronate dell’Asylum la società americana che si arricchisce realizzando pellicole dove gli squali arrivano a mordere nell’occhio dei tornado. Cialtronate che nel caso dell’Isis si trasformano in queste operazioni di morte coreografate, montate, tagliate, finalcuttizzate in modo tale da essere appetibili all’occhio occidentale. Un paradosso: questi video che macellano uomini occidentali sono fatti perché li vedano gli occidentali, parlano il loro linguaggio.

Ma ci sono vari paradossi all’interno di questo sistema. Nascono per fare paura, per spaventare il nemico, per fungere da deterrente mostrando l’orrore nella sua forma più schietta, più pura, l’esecuzione cruenta, tramite taglio del collo o combustione da vivo, eppure, se si ha la freddezza e il cinismo necessari per muovere le lancette autoptiche all’interno di questo fetido cadavere, si scopre che nei filmati di ultima generazione la violenza, la belluinità risultano attenuate, mitigate dal particolare utilizzo degli strumenti che consentono di creare la fiction, che trasformano o trasfigurano o transustanziano, non so bene, la realtà in spettacolo. Questi imbecilli in tutta nera forse per calcolo forse per caso – prestargli eccessiva intelligenza è un errore che in tanti, in troppi, continuano a commettere – realizzano dei prodotti frenati, verrebbe da dire censurati se l’uso del verbo non risultasse grottesco o ridicolo. Tagliano sulle urla dell’uomo bruciato vivo, sulle fasi clou della decapitazione, confondono le acque con l’uso di una colonna rumori e sonora pompatissima, e insomma sollevano più polvere ma cucinano meno arrosto di quanto non facessero i video delle antiche esecuzioni tipo quella di Nick Berg, scannato da questi boia – cinque contro uno, legato mani e piedi – nel 2011. Allora: qui siamo in un ambito, astraendo se mai è possibile dai dati reali e alzandoci nei cieli meno puzzolenti e asfissianti della teoria, che mi pare ben diverso, molto distante e forse persino opposto a quello in cui si muovevano i realizzatori dei mondo-movies italiani degli anni Sessanta, quando – vero o falso che fosse – chiedevano al plotone di esecuzione di spostarsi contro uno sfondo più chiaro, prima di eseguire la condanna a morte. Il falso che doveva sembrare vero oggi è diventato il vero che deve sembrare falso, che deve rivestirsi dei lustrini e delle pailettes della fiction, che deve adottare i suoi trucchetti, le velocizzazioni, gli stacchi e i tagli continui, le grancasse, per passare, arrivare, colpire, scuotere.

E allora? Allora mi è venuta voglia di tornare ad affondare le mani in quella melma che abbiamo, nel corso degli ultimi vent’anni, spalato in termini di cinema estremo, di limite della visione, di occhi selvaggi eccetera eccetera. Confrontiamoci, ancora una volta, con la cosa con la quale in fondo siamo sempre lì lì per rapportarci, sulla quale siamo sempre attratti e atterriti dall’idea di inchinarci per interrogarla. La Morte e la sua multiforme rappresentazione sullo schermo; naturalmente la Morte puttana, quella che non cerca perifrasi per essere esposta, quella la cui rappresentazione non è mediata da niente. Così abbiamo fatto, raccogliendo dalla gran quantità di materiale che c’è negli archivi ciò che pensavamo valesse la pena – la scrematura è difficile, perché c’è moltissimo dietro le nostre spalle –, altro aggiornando e altro scrivendo ex novo, per rimetterci in pari con quanto è accaduto e continua ad accadere nel cinema e soprattutto on line, che è il vero grande serbatoio in cui cercare il meglio, cioè il peggio, avendo la certezza di non essere mai delusi.

Bon voyage.