L’Arrival di Wang

E se il film di Villeneuve fosse legato a quello dei Manetti Bros?
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Arrival e L’arrivo di Wang. È notte, c’è la luna piena, un cane mannaro ulula di laggiù. All’improvviso, da un altro dove e da un altro quando, ecco sbucare quattro alieni quattro: non una falange, una famiglia si direbbe; hanno occhi grandi, teste triangole, sono glabri e asessuati. Si muovono in sincrono, parlano la nostra lingua, hanno uno scopo dichiarato, cercano la terra promessa. Partiamo da qui, dallo spot ultraweird ultratrash di Sanremo 2017, per affrontare un caso cinematografico curiosissimo, germogliato quasi per caso, un dicitur sui social network, gradualmente ingranditosi fino ad attirare la nostra attenzione. Dopo un buon giro di festival – quelli cinematografici, quelli seri – Arrival sta invadendo le sale italiane, preparandosi a un successo certo e tutto sommato meritato. Il film di Denis Villeneuve è un’ode all’umanesimo filantropico intergalattico, all’umanesimo che diventa alienesimo quindi, in cui il linguaggio e la comunicazione sono le chiavi di volta, non solo per la comprensione reciproca e per la tolleranza – dalla radice latina della parola, nel senso di “sopportazione”, perché le parole sono importanti – del diverso, ma per la ridefinizione del canone di tempo. Che può non essere lineare, senza essere necessariamente circolare. A chi scrive, il film è sembrato intriso di sottotesti religiosi, a partire dal numero delle astronavi che piombano sulla Terra (12, come gli Apostoli), alla preminenza conferita al Logos – il Verbo, la Parola, il Vangelo alieno -, al senso della vita in cui passato e futuro fanno rima con dolore scelta e necessità (Ananke). Nel dettaglio spicciolo della trama: una linguista insigne è come rapita – army abduction – dai militari per una missione impossibile: deve cercare di interloquire con alcuni alieni misteriosissimi e tentacolati, gli Eptapodi, venuti all’improvviso da un altro dove e da un altro quando. La linguista dovrà capire qual è il fine, lo scopo (purpose) della intrusione aliena. La linguista può avvalersi del contributo di uno scienziato, ma in realtà fa tutto da sola, stabilisce il contatto – verbale, linguistico – determina la relazione e la natura non competitiva della relazione, giunge alla rivelazione probabilmente salvifica per l’umanità. Una volta illuminata, evita una guerra mondiale interplanetaria interloquendo medianicamente con il generale Shang, cinese, a capo dell’asse del male (Cina Russia Sudan e diavoli simili) e sostenitore della soluzione finale contro gli Eptapodi.

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Il progetto del film viene dichiarato al pubblico nel 2012, per l’esattezza nel novembre del 2012, quando un comunicato stampa della Film Nation annuncia l’apertura dei lavori, con Eric Heisserer alla sceneggiatura. Il punto di partenza è un racconto del 1998 pluripremiato, Story of Your Life di Ted Chiang, che viene riportato sullo schermo nei suoi tratti salienti, pur con alcune significative variazioni. Tutto lineare, non fosse che un anno prima di quel comunicato, nel 2011, qui in Italia, nella più remota periferia dell’Impero cinematografico, in alcune sparute sordide sale usciva L’Arrivo di Wang, dei Manetti Bros, girato come al solito con tanta inventiva e pochissime lire. La trama: Gaia, giovane traduttrice esperta di lingua cinese, viene come rapita dai servizi segreti – classified abduction – e portata in un luogo non precisato per una missione segretissima: deve cercare di interloquire con il sig. Wang, nome di comodo per un alieno misteriosissimo e tentacolato, capace solo di parlare il cinese mandarino, venuto a Roma all’improvviso da un altro dove e da un altro quando e catturato dalla Digos. L’obiettivo è chiaro sin da subito: la traduttrice  dovrà capire qual è il fine, lo scopo (purpose) della intrusione aliena. La traduttrice non può avvalersi di alcun contributo, è sostanzialmente chiamata ad agevolare un interrogatorio, ma il contatto che stabilisce  – verbale, linguistico –, l’empatia con Wang e l’interpretazione del suo non detto determineranno gli eventi e la sorte dell’umanità.

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Arrival e L’Arrivo di Wang: titolo (quasi) in comune, statement del film imperniato su linguaggio e comunicazione, in più le suddette chiarissime similitudini. Non bastasse, occhio all’ambientazione: il confronto tra alieni e linguista/traduttrice avviene, per così dire, in camera caritatis, un ambiente chiuso e circoscritto, che nel caso di Arrival è una sorta di stanza di decompressione, nel caso dell’Arrivo di Wang è un bunker sotterraneo. Ricorre inoltre l’elemento metafilmico, con un vetro che separa, come uno schermo o un monitor, la linguista dagli Eptapodi, e una feritoia al di là della quale è spesso inquadrato il bunker di Gaia e Wang. Ora che ho la vostra attenzione, posso continuare. Potrebbe essere ragionevole che i Manetti si siano liberamente ispirati al racconto di Chiang, per cui le analogie germoglierebbero da un humus comune, anche se Marco e Antonio hanno più volte dichiarato di essersi ispirati alla serie tv 24, senza mai nominare Chiang. Abbiamo quindi sentito Marco Manetti, il quale ci ha giurato, di non aver mai letto Story of Your Life né altro di Chiang, rammaricandosene alquanto. Nel corso del colloquio, ci ha poi raccontato questa curiosissima storia: a seguito del successo sotterraneo di L’Arrivo di Wang, i Manetti hanno trattato a lungo con degli importanti produttori americani per un remake con i controcrismi, e soldi e effetti speciali e cast interstellare. Trattative lunghe, un anno e più, e su vari tavoli, in cui si è scesi nel dettaglio del trattamento del film e della sceneggiatura, con proposte esilaranti di alcune majors, tipo quella di far parlare l’alieno in una lingua che all’orecchio yankee suonasse più ancestrale e meno connotata rispetto al mandarino: il greco antico! Tra i vari produttori interessati, i più reattivi si sono dimostrati quelli di Film Nation: «Ci è stato proposto di firmare un contratto di opzione a titolo oneroso, noi abbiamo chiesto di inserire nel progetto alcuni nostri collaboratori. Loro ci hanno pensato, ma dopo qualche tempo hanno fatto saltare la trattativa perché non più interessati al progetto».

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Ricapitolo: nel 2011 Film Nation si interessa al remake di L’arrivo di Wang, dopo una lunga fase negoziale le trattative si interrompono nel 2012, poi la stessa Film Nation, nel 2012, annuncia Arrival. Una successione cronologica lineare che è sicuramente curiosa, sebbene non inquietante, perché è vero che i due film sono semanticamente legati da alcune inconfutabili coincidenze, ma è vero anche che sono profondamenti differenti nello sviluppo e nelle intenzioni dichiarate dai loro stessi autori. Occhio quindi, non siamo qui a parlare di plagio, è lo stesso Marco Manetti che ci avverte e ci ride grassamente sopra: «Secondo me, quelli di Film Nation avevano in mano queste due storie e volevano sviluppare il film da una o dall’altra, perché gli interessava il topic in comune. Per qualche ragione, forse per difficoltà legate al contratto, o per l’attrattiva del racconto di Chiang, oppure perché il nostro finale plumbeo li ha spaventati, hanno scelto di proseguire sulle strade di Arrival, suggerendo ad Heisserer e alla sua crew, a titolo di spunto, di guardare il nostro Wang». Io invece, visionario e metafisico come mi ritrovo, sono a suggerire un’interpretazione differente, non lineare, non teleologica degli eventi: e se Chiang stesso, Signore del Tempo, avesse visto L’Arrivo di Wang nel Futuro, e poi lo avesse rielaborato inconsciamente nel suo tempo passato, originando poi nel successivo futuro anteriore il film di Villeneuve? La risposta è: boh? qui mi fermo, consigliando a tutti di vedere entrambi i film al più presto, perché, come si dice in giro, chi ha tempo non aspetti tempo.