La settima morte: l’arrivo del torture porn alla stazione di La Ciotat

Da Melancholie der Engel di Marian Dora, a Philosophy of a Knife di Andrej Iskanov
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Sarà inevitabile che i diversi linguaggi della pornografia più estrema e bizzarra (Pain, Sperrgebeit, Gomma, Luigi Atomico, i genki-genki solo per menzionarne alcuni) della video-arte più azzardata (Kern & Zedd, Hussain, Duncan, Aryan Kaganof), dei performer e dei fotografi più oltraggiosi (Cazazza, Joe Coleman, Serrano, Witkin, Mapplethorpe, Damien Hirst), e del quadrilatero mondo-shockumentary-deathploitation-snuff romperanno gli argini miscelandosi tra loro e riversandosi a peso morto sulla settima arte, dando una lunga vita a una nuova carne e sancendo nuovi diagrammi di Venn dell’horror, carnificando un ideale Leviatano di orrori ottenibile unendo i puntini da Il cameraman & l’assassino Srpski film, passando per Frontiers e Martyrs (senza scordare quel Buttgereit che in Der Todesking e Schramm omaggerà meglio di chiunque altro l’anima prava dei mondo e degli shockus, rilanciati in contesti fictionali).
Quanto a riflessione-rifrazione scopofagica, da Powell in su il cinema macinerà migliaia di km, sfornando una costellazione di prodotti che manderà al tappeto anche il Deodato di Cannibal holocaust o il Watkins di Last House on Dead End Street, in un processo creativo culminante in una sfida ai 4 cantoni con le peggio nefandezze del deep web. Con l’avvento del torture porn il cinema si riapproprierà autoritariamente di quello splatter buttato in burletta da Raimi e Jackson, arrivando a riconferirgli anche valenze metaforiche pesanti o severi sottotesti politici (prima ancora dell’affondo serbo, è quanto meno doveroso ricordare quel Kichiku dai enkai che batte stendardo nipponico imbrattato di cervella e budella, ove mattanza e Mishima appartengono allo stesso ceppo), e a tal pro si avvarrà soprattutto di due forze vettoriali: la meta-testualità e lo sfondamento/rivelazione della quarta parete ormai assurti a vero e proprio genere (con gran scialacquio di POV, found-footage, meta-metacinema, wanna-be-snuff etc) e il più totale sprezzo nei confronti della sensibilità dello spettatore, e di ciò che questi può ancora considerare visivamente off-limits e concettualmente inviolabile. Ma il refrain rilanciato dal pornture è che in arte nulla è immune né sacro, non meno (più ancora?) che nella vita. Prima che Spasojevic uscisse dalla nicchia sdoganando a Cannes un modus cinemandi che chissà dove porterà i succedanei, il cinema underground non tarderà a tesaurizzare la meditatio mortis ottenuta seguendo meridiani e paralleli di Rotten (sito partito da una corposa offerta necro-fotografica non dissimile dalle messicane death mags come El nuevo Alarma o Peligro) e Thynec: il primo a subodorare l’affare e batter cassa sarà Fred Vogel che evidentemente folgorato sulla damascata via dei primi due Guinea pig s’è messo in testa di eccederli, peraltro riuscendovi sia nell’inqualificabile trittico August Underground che aggiustando il tiro con il pesante Murder Collection vol 1, forse la più riuscita filiazione estetica dell’horror più irreconciliato con lo stile e i contenuti di Le Cilaire; a oriente la controparte che sfrutterà GP come abbeveratoio verrà rappresentata dal Yamanouchi dello spiazzante Muzan-e, e più indecentemente da quel Tamakichi Anaru che in tediosi obbrobri del rango rasoterra di Tumbling dolls of flesh –secondo la leggenda finanziati dalla yakuza – coniugherà l’hardcore con lo slaughterfest e la mitologia dello snuff, mal supportato però da un’indigenza di idee e da techné squalificante e da carenti f/x che nemmeno Cicciobello Bua.

Ma sarà col balordo Melancholie der Engel (2009) che scopriremo che il Marian Dora che già ci regalò lo spudorato Cannibal si è portato incredibilmente avanti ai non ancora pervenuti Spasojevic e Six, e ahitutti riesce a far mangiare polvere (e non solo quella) sia a Srpski che a Human Centipede 2, in un’estenuante baraonda sickening di quasi tre ore priva di qualsivoglia senso dell’autoironia (riscontrabile a piene mani in Six) come di epos (che sebbene metaforicamente posticcio ritroviamo in A Serbian Film, al grido di “Serbia anus mundi!” ipocrita quanto si vuole ma filtrato dal vocoder di un’impeccabile forma, e di una prospettiva visiva e narrativa considerevole per un’esordiente): e via andare con un profluvio ininterrotto di turpitudine assortita, una raccolta differenziata di ogni peggio, un album completo delle più zozze figurine Panini, una gimkana tra budella asportate, insetti di ogni tipo schiacciati e mangiati, gatti sgozzati, un ossessivo refrain di bambolotti (bruciati, impiccati, rotti, crocefissi, inzaccherati di pajata, avvolti nel filo spinato) e carcasse animali ad ogni grado di decomposizione, feticci vodoo, ronzar di mosche, grovigli di vermi, blatte, cavallette, ragni, topi putrefatti usati come segnalibri (!!!), teschi estetizzati in ogni salsa e minestra, e un vasto assortimento di puking dal vero da far invidia a Lucifer Valentine, pissing (anche su corpi carbonizzati – ma perché??) e shitting (ma in un contesto para-biblico flou e arty che flirta coi paraphernalia sacri, coi più posticci filosofemi e col paesaggismo impressionista, tanto che pare di averci davanti un Dumont drogato forte e in fissa per Bestgore); e sull’incredibilmente anticipato newborn porn di A Serbian film (il film è del 2006) qua addirittura ci si masturba usando il nastro magnetico come materia prima per titillare il clitoride, affinché la greve e puerile metafora lasci un livido bello ampio là dove viene sgomitata, mentre in parallelo una poveretta viene rudimentalmente ovarictomizzata: buona parte dello score è di David Hess (sì, quel David Hess), tanto per accentare la portata della cattiveria; e in tutto culo a Uwe Boll (uno che tra Darfur e Auschwitz ha provato a urlarci di essere il primo della classe ad avere zero in condotta), nella scena peggiore del film il più sadico dei protagonisti entra trionfante ad Auschwitz dichiarando quanto quel posto lo carichi di estasi (a Spielberg andarono in corto circuito le cineprese, perché a Dora no?): tutte cose talmente ovvie e straviste da far sbadigliare dai primi minuti, ma è l’accatastamento da horror vacui frammisto a una snervante coazione a ripetere a scazzottare il fegato e scalciare i testicoli, il loop che sembra non aver mai fine di esponenziali zozzerie a tiro incrociato è davvero annichilente e non è da escludersi che una strizzata di stomaco l’avrebbe data anche a De Sade. Più ancora, l’accorgersi che il limite che separa gli effetti speciali dal vero è sempre più scarso: puking, pissing, shitting, choking, reali scarnificazioni e torture, un gatto sgozzato: tutto economizzando su reparto f/x e make-up. D’accordo che il buon gusto è la morte dell’arte, ma qui si abusa del privilegio scavalcando l’arte come la morte.

Il fatto è che, come ci dimostrano circa 10’ centrali di crescente e serrato montaggio alternato e al contempo parallelo il cui climax ci inchioda, il velleitarissimo Dora scemo del tutto non è e le carte potenzialmente vincenti le avrebbe pure, cosa che fa incazzare il doppio nel vederlo buttarsi via nel dover dimostrare al mondo intero di essere il più maudit di tutti affastellando banalissima pornografia del (divertimento del) Male per 160’. Certo, infero è infero, e nel suo porsi come olimpo di gratuità va giù oltre il centro della terra, ma in sostanza è davvero roba per la quale ci si vergogna a morte. Di averla vista sprecandoci tre preziose ore della propria vita anzitutto, e per chi l’ha concepita (sprecandoci mesi di lavorio) poi. Al film ha preso parte anche Ulli Lommel e piacerebbe tanto incontrarlo per chiedergliene ragione; mentre è già più chiaro il perché sia stato assoldato uno psicologo sul set, o perché Carsten Franck abbia chiesto di apparire sotto pseudonimo e lo stesso nome dell’autore altro non sia che un anagramma del suo vero gentilizio, espediente usato (di pari passo con il veto di pubblicazione di sue foto) per ovviare alle numerose minacce di morte ricevute dopo che l’opera ha vinto il Best International Feature Film – Arthouse al New Yok International Independent Film & Video festival. E quanto a crono-record battuto non siamo nemmeno al top: in Philosophy of a Knife (2008) nell’affannoso tentativo di farsi allacciare le scarpe da Man Behind the Sun e di porsi come opera definitiva sull’Unità 731, Andrej Iskanov propina exploitative efferatezze per 266 minuti quanto mai messneriani, con l’intermittente paravento documentaristico offertoci da interviste a chi la sventura la porta ancora con sé (ma l’intervistato, per converso, finisce col non sembrare granché credibile), in un cronometrico primato che si spera resti imbattuto. Paravento quanto mai pretestuoso e labile (ancorché indecoroso), considerato che questi interventi rappresentano appena il 15% di circa 4 ore e mezzo di sevizie in nome della ricerca medica delocate da quel contesto narrativo che Mou, abbracciando se non un genere almeno i suoi topoi, si è perlomeno sforzato di offrire. Quello di Iskanov è un lavoro più vicino a un kolossal klip per band post-industrial, dove la patina e il gross out ballano il sirtaki, in un goffo e raffazzonato tentativo di coniugare vis tsukamotara al torture porn più scellerato. O di porsi come il Vertov della crudeltà incondizionata. La sceneggiatura è né più né meno la lista di torture (il cui fine ultimo non viene mai delucidato) consultabile sulla wikipage. Il film va tautologicamente da sé, in un manierato b/n sporcato da graffi e spuntinature post-prodotte, che vede sfilare avvenenti modelle inespressive incuranti di palesare un minimo di cruccio nemmeno quando viene strappata loro un’intera arcata dentale o (in quella che è la scena più allucinante e verosimile del lotto) inoculata una blatta nella vagina – cosa peraltro inattendibile, se si tiene conto della capacità contrattiva ed espulsiva delle pareti vaginali – e se non fosse per lo score sopraffino diremmo pure che ritmicamente Iskanov non arriva manco a fare il nodo alla cravatta al Shozin Fukui di Rubber’s Lovers cui sembra attingere con voluttuosa cleptomania. Pestare sempre più duro e sempre più a lungo è inutile se viene meno la verve affabulatoria e tutto si piattifica nel coté videoclipparo e negli attori impartecipartivi, e anche solo quanto a efficacia del reparto f/x il confronto con Mou si rivela presto impari.

A corto di semafori rossi da attraversare accollandosi il piacere del ballardiano crash, l’ultimo tabù rimasto ancora intonso almeno cinematograficamente parlando, quello della profanazione della donna incinta (e/o del relativo neonato), verrà dalla settima arte preso di mira a ogni latitudine e longitudine, con un puntiglio che darà di che rimboccare le maniche delle sette camicie degli f/x makers: varato/infranto in primis da Deodato in Cannibal Holocaust e poi dal trio belga come agghiacciante (al punto che per riuscire a dirigere la scena l’intero cast s’è preso prima una sbronza colossale) cesura morale di un’opera che faceva fin là ridere di quel che si vedeva, lo ritroveremo immoralmente esercitato di lì a qualche manciata d’anni da VogelLucifer Valentine,dal Peralta dell’infame Snuff 102 e Dora (ma anche Mou nell’altrimenti struggente e rigoroso Black Sun – The Nanking Massacre non ci risparmierà un feto estratto con una baionetta; e prima di lui Untold Story e Run and Kill si aggiudicheranno le più pesanti incursioni infanticide a memoria dei Lumière). Spasojevic arriverà laddove nessuno di loro aveva ben pensato di impegnarsi, con l’ormai famigerata scena del newborn porn invero più terribile a descriversi che a vedersi, anche solo per quanto è mal realizzata (Six in Human Centipede 2 saprà addirittura spingersi oltre, e l’odio secco per il proprio figlio che fa da ossessivo leit-motiv del bellissimo Daisy Diamond lascerà addosso un disagio ben più schiacciante di qualsiasi cine-feticidio, in un film che pur non mostrando una stilla di plasma saprà essere più terrifico e sgradevole di A l’interieur), che non sarà nemmeno il peggio di quello che da là in avanti il film avrà da offrire. Come che sia, sia per dirompenza segnica che testuale, A Serbian Film resta a tutt’oggi un approdo di non ritorno (come possono esserlo, poniamo, Enter the Void per Noé o Inland Empire per Lynch) e un film destinato a restare la chiave di volta, il bug di sistema, la zeppa che imbarazzerà anche i più oltranzisti libertari facendo loro esordire in sede recensiva l’ormai classico “vi assicuro che in vita mia ne ho smaltite di ogni e sono l’ultima persona a favore della censura, ma…”, a contraddittoria onta di un prediletto genere che per sua natura persegue l’assenza di ogni sentimento positivo; e soprattutto rappresenterà una nuova foce che renderà il cultore curioso di sapere a quali cascate oserà farci rovinare, da ora in avanti, il cinema estremo: l’orizzonte ci farà intravedere chi eccederà Spasojevic o nell’affrontare il nome del Male si retrocederà bazinianamente a una maggiore austerità/delicatezza visiva, che ha già avuto nell’Haneke di Funny games il suo più acuto profeta morale? Time will tell.