L’inferno verde e i cannibali rossi

Eli Roth tira le fila della grande tradizione italiana dei mangiatori di carne umana
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“Mangiare” è il verbo dal quale occorre partire. Il cannibale è definito nella sua essenza prima e ultima come un essere che mangia, manduca, mastica, sgranocchia, la carne di un suo simile. È la traduzione letterale dell’adagio che l’uomo è lupo all’uomo, homo homini lupus, cioè se lo magna. I cannibali italiani hanno sempre mangiato poco; diciamo il necessario perché l’effetto repellente della pajata strappata a morsi potesse essere messo in atto con efficacia. Percentualmente, il rituale della mangiata, comunque, è sempre stato roba di poco. Un minuto o due su novanta canonici. Un altro paio venivano impiegati per preparare la pietanza, il che voleva dire mostrare il cadavere nell’atto di venire sventrato da un bastone (facendoci caso, si nota che è sempre un bastone che sfida le banali leggi della fisica, perché ha, di fisso, la punta arrotondata; chissà perché? Mai un falcetto o una selce affilata, ma sempre quello strano legno ottuso, incapace di incidere qualunque cosa, che si lascia dietro una smaccata scia rossa di vernice. Sono i dettagli strani del bis italiano…) , ma poi più nulla. A volte verrebbe da dire che più l’idea del cannibalismo che non la pratica concreta dello stesso ha dominato il filone. Il film di Eli Roth, da questo punto di vista, è saltato invece ardimentosamente dall’altra parte dell’abisso: i suoi indigeni antropofagi si prendono tutto il tempo necessario per preparare e poi per degustare le pietanze umane. E le morti sono tutte scioccanti, non toppa su una che sia una, il buon Eli. La prima macellazione che The Green Inferno mette in scena procede oltre qualunque cosa si fosse vista o immaginata nei film che furono. Nemmeno Umberto Lenzi che pure arrivò a intitolare un film prendendo spunto da ciò che accadeva ad alcuni protagonisti di esso, che fossero, cioè, mangiati vivi, avrebbe mai tirato la corda come fa Roth quando occhi – uno, l’altro – poi lingua, braccia – una, l’altra – e quindi gambe – una, l’altra – smonta la meravigliosa macchina del corpo umano di un grassone che, troncone umano zampillante rosso, solo quando perde per il colpo di machete finale la testa, sprofonda dal dolore cieco nell’abisso della nera incoscienza. Non c’era bisogno di arrivare a questo punto del film per capire che Eli Roth non stava scherzando. E per capire che lo stesso Roth, a differenza del suo amico Tarantino, quel che promette mantiene. Non scrive sul manifesto Django per poi darti qualcosa che non c’entra niente con Django. Roth scrive The Green Inferno e ti dà effettivamente non solo quel che ti aspetti ti dia, ma te ne dà più di quanto tu possa immaginare. E non è ovviamente questione solo di un ciccione scardinato pezzo dopo pezzo, mentre i suoi amici assistono impotenti al martirio.

Ma qui ci addentriamo in una serie di faccende che non sono facilmente commestibili – proseguendo nella metafora – da tutti. The Green Inferno ha un senso quando lo si veda in un’ottica differente e più stratificata che come un semplice pop-corn movie, da idolatrare da parte dei fanatici perché gronda sangue e dejezioni corporee che nessuno oserebbe altrimenti mettere in scena, o da liquidare da parte dei bru bru che non possono non arrivare a considerarlo un obbrobrio e un insulto all’intelligenza del raffinato cultore di horror. Che sono poi, in fondo, estremi di intolleranza e di imbecillità che si baciano e si sovrappongono. The Green Inferno è un film per un pubblico d’élite, per gli addetti ai lavori, per chi ha le chiavi per entrare in quel palazzo. Agli altri tocca guardarlo da fuori. Roth se li è studiati per bene, tutti i cannibalici italiani. Non soltanto la filmografia maggiore, quindi sua maestà Ruggero Deodato per primo e poi Umberto Lenzi, ma anche tutto il resto, la falange dei minori. Ma come al solito in quel che porta la sua firma, la somma non è mai la cruda addizione dei fattori. Cannibal Holocaust o Ferox che sia + Il Paese del sesso selvaggio + qualunque altro titolo si riesca ad identificare, non danno The Green Inferno. C’è di più, parecchio di più.

Eli usa come pesce pilota un gruppo di giovani impegnati che vogliono denunciare, via social network, lo stupro della foresta peruviana, incatenandosi alle ruspe che stanno aprendosi la strada nell’inferno verde e filmando quel che sta avvenendo, anche a costo di beccarsi una fucilata, perché gli scavatori sono appoggiati da una milizia armata fino ai denti. Lorenza Izzo si lascia irretire dall’idea di seguire gli attivisti, con i quali è giunta in contatto perché – warning – una lezione all’università l’ha scioccata. Si parlava di infibulazione; e se uno conosce un minimo il cinema di Roth, sa che se viene lasciata cadere una cosa del genere nel discorso è perché è destinata ad essere ripresa. E si comincia a muoversi sulla sedia, a sentire un certo disagio che monta… Roth, man mano che porta avanti il film, si mette in una posizione che vorremmo definire deodatiana anche se è un aggettivo che fa schifo; perché The Green Inferno risponde alla domanda su chi potrebbe essere Alan Yates nella seconda decade degli anni Duemila, concludendo che oggi un certo tipo di attivismo che porta alle estreme conseguenze la propria lotta potrebbe ricorrere a una manipolazione della realtà, anche bieca e violenta, per avere la visibilità che occorre allo scopo. Non è stupido. Soprattutto dimostra che Roth non si ferma alla forma ma scende nella sostanza. E allora sì, da questo punto di vista, The Green Inferno non riprende dal masterpiece di Deodato soltanto il titolo del film fittizio, ma attinge una polpa che, per esempio, quel pur bellissimo e tremendo POV che si intitolava Welcome to the Jungle (del 2007) e che era un nemmeno troppo camuffato remake di Cannibal Holocaust, non restituiva, perché si fermava al livello del film nel film di Cannibal e si concentrava su quello: la strage, la carneficina, la disperazione.

Eli rimescola i materiali di Cannibal e ci arriva anche lui al crepaccio oltre il quale il sangue ruscella tumultuoso, ma non perde di vista il resto, non dimentica che i protagonisti finiscono dove finiscono perché hanno ordito una grande manipolazione per plasmare una realtà mediatica, hanno barato e giocato sporco. C’è il rischio che tutto questo sfugga al lettore occasionale che si domanda, giustamente, chi cazzo sia Alan Yates, ma in questo senso premettevamo che The Green Inferno lo si penetra se si hanno presenti le sue premesse cinematografiche che sono molto precise. L’emulazione rispetto a Deodato è molto sottile e mai platealizzata, al di là delle microcitazioni e degli inchini che si possono identificare e che sono dei divertimenti. Roth, questo è vero ed è una differenza da Cannibal, usa dei selvaggi che sono poco alla Rousseau come invece erano i figli della luna di Deodato. O meglio, ne usa di innocenti e candidi sul grande numero, per costituire il gruppo – con quella bella idea scenografica di farne degli omini tutti rossi, che paiono tinti di sangue – ma poi consente al bisogno di manicheismo che è proprio di un certo cinema per la massa, e delinea una capotribù che si presenta a guisa di strega sciamana – ad abundantiam ha pure un occhio cieco completamente bianco – e un gigantesco boia dipinto con i colori rituali del nero e del giallo che ha i caratteri dell’orco ma è implausibile, lì in mezzo. Serve per la bassa macelleria, ma è implausibile.
Dopo che Deodato ha visto The Green Inferno ha capito che il suo giovane pupillo tutto aveva girato fuorché un clone formale di Cannibal Holocaust, anche se il film glielo ha dedicato: To Ruggero. Anzi, filologicamente sembra proprio che Roth abbia improntato una buona parte del suo film al ricordo di un altro Cannibal, però quello Ferox, con la regia di Umberto Lenzi. La situazione dei bianchi catturati che, rinchiusi in una gabbia – qui sono stipati con i maiali, tanto per rendere ulteriormente chiaro che gli indigeni li considerano solo della carne che cammina, una riserva ambulante di cibo –, osservano la fine dei compagni in attesa che venga il loro turno di essere squartati, cotti e mangiati, è la stessa che toccava ai protagonisti di Lenzi, che erano tuttavia quasi tutti degli infami e quindi nel momento in cui Giovanni Lombardo Radice subiva lo scalottamento con il machete e prima ancora l’evirazione, lo spettatore aderiva a degli atti che sentiva giusti e dovuti. In The Green Inferno, invece, l’unico che dovrebbe pagare non paga e cadono uno dopo l’altro quelli che non hanno né colpa né peccato se non di essere degli sprovveduti idealisti e di avere seguito quel leader di cartone nella giungla. Sono riflessioni che vengono fuori al di là di ciò che Roth può avere pianificato facendo il suo film, dove l’aspetto che più interessava il regista era mettere gente senza colpa nelle fauci di gente che è altrettanto senza colpa e che non può che assecondare la legge della propria natura.

Perché The Green Inferno è un film sulla natura umana – sempre e comunque orribile: Roth è un pessimista cosmico, un leopardiano – e sotto questo angolo di incidenza acquistano un significato che va oltre il loro valore apparente atti come quello di Kirby Bliss Blanton che svuota gli intestini davanti ai suoi compagni, nella gabbia, o quello di Ariel Levy – il viscido leader degli attivisti – che si masturba sotto gli occhi di tutti perché – dice – questo serve a scaricare la tensione e permette di pensare meglio: due tra i momenti più scioccanti perché i meno prevedibili in assoluto del film. Verrà magari facile parlare di scorie o sedimenti della commediaccia italiana delle scoregge, che Roth conosce – anche quando entra in gioco un sacchetto di ganja usato come viene usato. Ma persino un cieco capirebbe che siamo fuori strada e che qui il basso corporeo è parte integrante di un discorso sulla natura e sulle leggi che la governano e che, quindi, sta benissimo messa dove sta. A voler dire qualche parola di sintesi, potremmo riconoscere a Eli Roth il merito di averci raccontato tutto quello che avremmo voluto vedere in un film che rivitalizzasse l’antropofagia cinematografica nel 2015 ma che non avevamo il coraggio di chiedere. Consci che i tempi, i registi e soprattutto gli spettatori sono diventati quello che sono.