Intervista a Sergio Stivaletti

Conversazioni a ruota libera, a tutto campo e fuori dai denti, con il maestro italiano degli effetti speciali, il cui nome è diventato un brand ricercato e sempre vincente
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Venezia, 17 aprile 2015. Incontriamo Sergio Stivaletti durante la XVIII edizione di Cartoons On The Bay, Festival dedicato all’animazione televisiva e cross-mediale. Il maestro degli effetti speciali è membro di una giuria internazionale chiamata ad assegnare i Pulcinella Awards 2015 per i migliori prodotti d’animazione in concorso alla manifestazione.

Cominciamo proprio dalla location in cui ci troviamo: Venezia, Cartoons on the bay. Che rapporto hai con l’animazione?

Pur non essendo un grande esperto di cartoni animati sono un grande appassionato nonché realizzatore di effetti attraverso l’animazione. Qui a Venezia sono in veste di giurato, insieme al mio collega Anthony LaMolinara, Premio Oscar per gli effetti speciali di Spider Man 2 (2004), un amico che conosco da diverso tempo, avendo avuto occasione di aiutarlo per gli effetti speciali di un suo corto girato in Italia qualche anno fa [Topino, 2006]. Con Roberto Genovesi, direttore di Cartoons on the Bay, ci conosciamo benissimo. In passato abbiamo avuto diversi scambi di idee su alcuni progetti che avremmo dovuto realizzare insieme a partire da cose che lui aveva scritto.
Personalmente mi piacciono molto i film di animazione indipendenti perché ci ritrovo ancora molte idee, molte tecniche artigianali che sono alla base di tutta la cinematografia degli effetti speciali fino all’invenzione del computer: penso alle animazioni fatte con oggetti di uso quotidiano come i fogli di carta, o con materiali naturali come l’erba o la sabbia…

Tu stesso avrai utilizzato il passo-uno per alcuni tuoi effetti…

Per Il nido del ragno [1988, Gianfranco Zagni] ho usato parecchio lo stop motion: il movimento dei ragni che uscivano dalle sfere era realizzato proprio così. Anche l’inquadratura in campo largo in cui si muoveva il mostro era fatta tutta a passo uno. In quel periodo ebbi anche la sfrontatezza di portare questo filmato al grande Ray Harryausen, maestro di questa tecnica. Quale migliore scusa per incontrarlo avendo da poco fatto questi effetti in stop-motion? Sono andato da lui e glieli ho fatti vedere. Per me è stata una gioia immensa e credo che anche lui si sia divertito. In quell’occasione mi mostrò la sua vetrina con i vari scheletri e i mostriciattoli usati per i suoi film… un grande!

È vero che il tuo primo film in assoluto è Murder Obsession (1981) di Riccardo Freda?

Sì, mi attribuiscono questa paternità, ma non è un film che posso dire di aver firmato. Ho collaborato con Angelo Mattei che faceva gli effetti, ero nella sua bottega, ma io lì ho fatto solo alcune cose, collaborando a qualche invenzione. Niente di particolare.

All’epoca il vostro lavoro era sicuramente più “artigianale”: tutto andava creato dal vero…

Assolutamente sì. Sin dai tempi di Demoni (1985) mi sono posto il problema delle trasformazioni in diretta. Per il cinema italiano quella era davvero una sfida, certe cose si erano viste solo nei film americani. In quegli anni il mio lavoro principale è stato proprio quello di portare l’animatronica all’interno degli effetti speciali. Prima c’era stato solo Carlo Rambaldi, che però era andato in America a continuare il suo percorso.

In Italia c’era anche Giannetto De Rossi… l’hai conosciuto?

Non personalmente. Una volta mi chiamarono per mettere le mani su un effetto in un certo film, ma poi mi dissero che lo aveva fatto De Rossi, non era il caso di ritoccarlo… Comunque non credo di stargli molto simpatico. Quando ha avuto l’occasione di parlar male di me lo ha fatto senza problemi. Posso capirlo, perché in quegli anni si parlava più del mio nome che non del suo, nonostante lui avesse fatto già moltissime cose. Io sono stato uno spettatore degli horror di Fulci. Appena uscivano andavo a vedermeli in sala, rimanendo ogni volta incantato dagli effetti speciali. Oggi ovviamente mi farebbero un effetto diverso, però alcune cose reggono ancora, e comunque mi rendo conto che le sue dovevano essere state delle sfide sicuramente non minori di quelle che ho dovuto affrontare anch’io. Rispetto alla sua epoca, quando si producevano molti più film, io ho avuto la fortuna di nascere in un momento in cui l’attenzione sugli effetti speciali era al culmine, e questo mi ha senza dubbio facilitato, ha fatto sì che appena realizzassi qualcosa subito se ne parlasse.

Rispetto agli effettisti della generazione precedente, tu sei stato anche tra i primi a confrontarti con le nuove tecnolgie digitali…

Beh, forse non tutti se lo ricordano, ma La sindrome di Stendhal nel 1996 fu il primo esperimento in Italia dove venne usata la computer grafica in un film girato in 35mm. Fino ad allora questa tecnica era appannaggio esclusivo delle sigle televisive, nessuno aveva il know how necessario per portare le immagini di un film girato in pellicola dentro al computer. Tutto questo lo feci con i miei modestissimi mezzi, attrezzandomi molto rapidamente dopo una chiacchierata con Tom Savini.

Hai conosciuto Savini?

Quando ero un ragazzo come tanti, mentre cercavo di imparare questo mestiere, studiavo i libri degli americani. Sulla mia scrivania c’era sempre quello di Tom. Poi un giorno lo andai a trovare nella sua casa a Pittsburgh dopo che ero stato “raccomandato” da Dick Smith che gli aveva fatto una telefonata e divenimmo amici. Anni dopo lui venne a Roma, ospite in un’edizione del Fantafestival. Passammo un po’ di tempo insieme e in quell’occasione mi disse di prepararmi, perché stava per succedere qualcosa di completamente nuovo nel campo degli effetti speciali. Anzi, mi disse che qualcosa era già avvenuto. Era il 1992: mi consigliò di andare a vedere Terminator 2, che allora era appena uscito nelle sale italiane. Quel film aveva reso obsoleta tutta la tecnologia utilizzata fino The Abyss. Appena uscito dalla proiezione del film di Cameron decisi che era giunto il momento di comprare il mio Silicon Graphics per passare agli effetti digitali. Così ho iniziato questo percorso.

A conti fatti, cos’ha significato il digitale per il tuo lavoro?

Il digitale ha sicuramente ampliato il raggio di cose che è diventato possibile fare. Basti pensare alle difficoltà che avevamo prima per rendere dal vivo il movimento di una creatura. In campo lungo diventava impossibile simulare la camminata di un pupazzo in modo credibile. Oggi possiamo usare delle aste verdi che ne accompagnano il movimento, come un burattino, facilissime da rimuovere al computer. Ma soprattutto, possiamo spingerci molto più in là, toccando risultati che non avremmo mai pensato di raggiungere. Gli effetti digitali non solo hanno reso praticabili alcune possibilità tecniche, ma hanno anche inciso sul nostro gusto visivo, spingendoci a immaginare cose prima d’ora davvero impensabili.

Nessuna nostalgia dell’analogico?

Non esattamente. Però ancora oggi, nonostante tutto, mi piace ricorrere alla materia, alla fisica, a quel tipo di effetti come le nuvole de I predatori dell’arca perduta (1981), realizzate in una vasca con dei liquidi lattiginosi che si allargano lentamente a causa della differenza di temperatura tra l’alto e il basso. Oggi probabilmente si farebbe molto prima a generare questo tipo di cose attraverso il computer, con i vari particellari che simulano i sistemi di meccanica dei fluidi. Ma è un peccato: l’estrema facilità nel realizzare certe cose, nel trovare già pronte le soluzioni ai tuoi problemi, fa sì che non si pratichi più quella sperimentazione che una volta ti portava ad avere degli effetti quasi imprevedibili. Degli effetti che, rielaborati dalla sensibilità del realizzatore, potevano diventare uno spunto per rendere visivamente qualcosa di insospettabile. Penso alle famose mosche che ho realizzato per Phenomena (1984), che erano fatte col caffè: una mattina, svuotando la moka nel lavandino, avevo scoperto che il caffè immerso nell’acqua rilasciava una nuvola di granelli neri. Così ho radunato quantità industriali di caffè chiedendole nei bar del mio quartiere e le ho lavate in acqua per alcuni giorni, fino a fargli perdere ogni residuo colorante. Questa polvere granulosa, una volta versata in un acquario dallo spessore molto limitato, ripresa con una pellicola ad alto contrasto e a una certa velocità, dava per risultato un nugolo di puntini neri in movimento contro un fondo bianco. Ecco le mosche! Con le tecniche di stampatrice ottica e le sovrimpressioni su pellicola, siamo riusciti a fare delle scene che sarebbe stato impossibile girare con le vere mosche che Maurizio Garrone aveva allevato per settimane nei teatri di posa della De Paolis: quell’inquadratura in cui uno sciame passa davanti alla luna, oscurandola… Ecco, questo tipo di inventiva è venuta meno con la computer grafica, ed è un peccato.

Siamo entrati in zona Argento: impossibile non parlarne, visto il tuo ruolo come elemento di spicco della sua factory…

Premessa: io devo tutto a Dario. Nasco con lui proprio grazie a Phenomena, dove mi è stata data la prima opportunità davvero importante. Ero ancora un ragazzo che stava iniziando, ma per quanto mi riguarda credo d’aver raccolto la sfida mettendocela veramente tutta. Da allora, la fiducia che mi ha accordato Dario non si è mai più interrotta, tanto che nel 1997 mi ha passato il testimone di Fulci, che avrebbe dovuto girare La maschera di cera, facendomi esordire alla regia: avendogli curato per anni gli effetti speciali ha sentito naturale propormi la regia di quel progetto. Più factory di così… Subito dopo, con Il fantasma dell’opera (1998), questa fiducia se possibile è ancora cresciuta: alcune sequenze del film sono state girate nel mio capannone, dove ho curato una sorta di seconda unità non accreditata. Non erano certo delle scene fondamentali, ma credo d’aver fatto anche in quel caso un buon lavoro. Fino a quel momento mi ero sempre occupato personalmente di tutti gli effetti digitali, ma successivamente Dario ha cominciato a lavorare anche con realizzatori americani: per La terza madre ha coinvolto il Premio Oscar Lee Wilson, mentre io mi sono occupato degli altri effetti del film. E così è stato anche per i lavori seguenti, fino a Dracula 3D (2012). Devo ammettere che ho sofferto un po’ il fatto di non poter più seguire gli effetti digitali, perché la loro progettazione prevedeva un coinvolgimento non solo sul set, ma anche in fase di post-produzione. Così, non gestendo più la computer grafica – che non ho fatto io, ci tengo a ribardirlo perché a volte mi è stata erroneamente attribuita – mi sono trovato a non avere più il controllo finale dei miei effetti. E questo credo abbia influenzato in senso negativo alcune cose. A prescindere dalle scelte di Dario, la realizzazione finale è in buona parte responsabile di una percezione, diciamo così, “poco originale” di questi effetti nel film. Per la disintegrazione dei vampiri, ad esempio, magari sarebbe stato interessante fare delle trasformazioni in diretta… se me ne fossi occupato personalmente, forse avrei optato per degli effetti fisici, degli scioglimenti o disintegrazioni ricorrendo alla fisica…

Da come ne parli, sembra che anche la realizzazione degli effetti digitali sia qualcosa a cui tieni in modo particolare…

Certamente. Del resto la mia vera anima è quella del realizzatore di effetti visivi e ottici, anche digitali. Il fatto di aver optato per gli effetti di make-up non dico che lo viva come un ripiego, ma quasi come una sorta di secondo mestiere. Questa è una cosa che non dico spesso perché può sembrare che stia sminuendo una parte molto importante della mia carriera. Ma se avessi potuto scegliere, certamente non avrei fatto solo film horror. Non sono uno squartatore di professione, lo sono diventato giocoforza perché il fantastico in Italia è stato rappresentato solo dall’horror… Avrei fatto volentieri anche dei film di fantascienza, se avessi potuto.

Comunque nella tua carriera ti è capitato di incrociare anche il cinema d’autore… Con Matteo Garrone, ad esempio, hai collaborato per un noir, L’imbalsamatore (2002)…

Lì ho fatto davvero una piccola cosa: un cadavere nel quale veniva nascosta della droga. Non era un effetto molto complicato, ma mi ha fatto piacere lavorare con Garrone, mi è anche piaciuto molto il film, come è stato girato… Mi è un po’ dispiaciuto non essere stato coinvolto nel suo nuovo progetto, Il racconto dei racconti… era dall’epoca di Fantaghirò che aspettavo che qualcuno in Italia tornasse a fare un fantasy. Certamente avrei accolto la sua chiamata a braccia aperte, dando tutto il mio contributo.

Negli ultimi anni ti sei prodigato molto per sostenere tutta una nuova generazione di esordienti nel cinema di genere indipendente…

Oggi mi sono fatto un’opinione più precisa sul cinema indipendente. Nonostante sia stato uno dei primi ad attribuire importanza a questi film, devo dire che a conti fatti purtroppo il film indipendente, anziché evolversi, si sta involvendo in qualcosa di molto piccolo, di molto ristretto. Il risultato, che io stesso sottovalutavo, è che stiamo assistendo a un ridimensionamento generale dell’orizzonte dell’horror, dove passa la percezione che questo genere in Italia si possa fare ormai con pochissimi soldi, tutto in casa: questo modello di cinema indipendente sta rischiando di imporsi come l’unico davvero possibile, con l’effetto di livellare verso il basso la produzione nazionale. Certo, è giustissimo che tutti abbiano le stesse possibilità, però è anche vero che con i miei trent’anni di professione sulle spalle non posso lavorare nello stesso modo con cui si trova a lavorare un ragazzo che raduna gli amici il sabato e la domenica per fare il suo film.

Quindi secondo te il boom del cinema indipendente di genere ha ancor più chiuso gli orizzonti, atrofizzato gli spazi?

Certo. C’è stata una stagione in cui io stesso quando andavo da un produttore a proporre un progetto mi sentivo ripetere il ritornello di The Blair Witch Project che era costato pochissimo: “Facciamolo anche noi così”. Da quel momento è entrata nella testa dei produttori l’idea che non dovevano più cercare grossi capitali per fare un film ma potevano bastare anche 40, 50, al massimo 100 mila euro. Oggi è ancora peggio: mi sento dire che ne bastano anche 20 mila…

La riduzione dei budget credo nasconda però ben altre deficienze…

Il problema più grave è che sempre più spesso si ha la sensazione di poter tranquillamente saltare quella che una volta si chiamava “gavetta”, ovvero il potersi guadagnare dei passaggi avendo conquistato delle nozioni sul campo, facendo un’esperienza. Oggi si ha la sensazione che tutti possano tentare di fare un effetto speciale, un’illuminazione, un pezzo di regia, qualsiasi cosa. Le informazioni che si possono trovare su YouTube con qualsiasi tutorial ci aiutano a capire il funzionamento di un certo software, ad esempio. Ma non hanno nulla a che fare con l’esperienza.
Devo ammettere che anch’io non ho fatto la “gavetta” classicamente intesa, quella per i professionisti, ma mi sono concentrato moltissimo sull’esperienza personale, inventando e sperimentando con formati come l’8, il super8, il 16mm. Sono stati una grandissima palestra perché eri costretto a imparare delle cose, non potevi accendere e girare. L’esperienza la conquisti solo attraverso la pratica, gli sbagli.
Molti filmaker che oggi vengono da me magari non sanno neanche che le cineprese possono andare avanti o indietro, non sanno neanche che alcune cose si possono ottenere già in macchina, alcuni effetti banali… Conosco gente in quest’ambiente che – ti garantisco – non sa cos’è un diaframma, ed è convinta che per fare la fotografia basti accendere una luce e guardare nel monitor. Il digitale ha dato questa sensazione di poter fare qualsiasi cosa con poco o pochissimo. Ma l’idea che ci si possa svegliare una mattina e fare i “registi” solo perché abbiamo tutti uno smartphone o un qualcosa che registra in hd – persino il mio I tre volti del terrore (2004) era girato con una risoluzione otto volte più bassa dell’HD di oggi – resta profondamente sbagliata. Per non parlare di quelli che sono convinti d’aver avuto finalmente l’idea che risolleverà le sorti del cinema horror italiano e che il loro sarà un film rivoluzionario nel genere: di questi ne ho conosciuti una quindicina negli ultimi anni…

Con alcuni avrai anche lavorato, visto che sei entrato attivamente in progetti indipendenti di giovani registi e produttori…

Ho lavorato con giovani esordienti, ma anche con qualcuno che si sente già un professionista affermato e pensa di poter fare a meno di qualsiasi consiglio da parte di chi invece la sua esperienza se l’è fatta sul campo…

Tipo?

Alex Infascelli. Su H2Odio abbiamo avuto qualche divergenza di idee…

È interessante la tua critica, perché fatta dall’interno…

Critico lo sono diventato, ma credo di potermelo permettere, anche perché non ho mai ostacolato i giovani. Al contrario, ho fatto sempre molte cose con loro e le continuo a fare volentieri. Inoltre da qualche anno mi sto occupando anche di formazione, ho una scuola, degli allievi, e ho anche un figlio di 17 anni che forse un giorno farà l’attore o il regista… certamente nei giovani rivedo quello che potevo essere io alla loro età.

Dalla tua scuola non a caso sono usciti fior di effettisti negli ultimi anni..

Da me sono passati in molti: David Bracci, Carlo Diamantini, Francesca Di Nunzio, Barbara Morosetti, e in anni più recenti le allieve della mia scuola come Federica Di Valerio, che è stata mia assistente sugli ultimi progetti. Tutti loro hanno iniziato un proprio percorso, portato avanti con difficoltà o facilità a seconda dei casi. Il mio collaboratore Daniele Auber oggi lavora a Hollywood per Terry Gilliam o Wes Craven, fa il carachter designer. Lì può vivere bene del suo lavoro, e continuare a farlo. Purtroppo i nostri talenti se vogliono avere delle possibilità devono andarsele a cercare fuori dall’Italia…

È interessante l’idea che il laboratorio degli effetti speciali sia rimasto in qualche modo l’ultimo esempio di “bottega cinematografica”: il lavoro di squadra, l’equipe coordinata da un “Maestro”… sono aspetti che danno l’idea di un lavoro nobile, di alto artigianato, che oggi purtroppo è andato completamente perduto..

Sì, te lo confermo. Del resto è anche una peculiarità della mia scuola, la Fantastic Forge, che è concepita come un collettivo di figure accomunate dallo stesso interesse per il fantastico. Non pretendo di insegnare qualcosa che io stesso non ho imparato frequentando dei corsi. Quello che cerco di trasmettere è più un “metodo”, da passare attraverso la pratica diretta, l’esperienza del set. Personalmente non mi è mai piaciuto lavorare al risparmio. Ho sempre preferito contornarmi di una squadra di giovani assistenti piuttosto che fare le cose in proprio, ma non per questo sento meno miei degli effetti che abbiamo realizzato in maniera corale. La maggior parte del gruppo mi ringrazia ancora oggi per avergli offerto certe possibilità, esprimendo sincera gratitudine.

Torniamo un attimo ai giovani registi. C’è qualcuno tra questa nuova generazione di cineasti che stimi, con cui ti sei trovato particolarmente bene…?

Potenzialmente ce ne sono molti, però anche loro sono un po’ incastrati nel meccanismo produttivo un po’ perverso che descrivevo prima. Se non trovano un vero produttore non succede nulla…

Facciamo qualche nome: Gabriele Albanesi?

Ecco, io ho creduto molto in Gabriele, ho fatto il suo primo film, Il bosco fuori (2006), di cui avremmo dovuto fare anche un seguito che poi non si è più fatto. Ho fatto Ubaldo Terzani (2010), e sto continuando a lavorare con lui anche per Kid In the Box, di cui sono anche produttore del teaser, a dimostrazione della fiducia che ho sempre riposto in lui. Però il ritornello è sempre lo stesso: mancano i finanziamenti. Anche per Kid In the Box abbiamo cercato di discutere insieme un budget dove sarebbe stato possibile fare delle cose più costruite, ma purtroppo i suoi produttori non hanno – o non vogliono impiegare – molte risorse. E quando alla fine si arriva agli effetti speciali non restano mai i soldi per fare quello che sarebbe opportuno fare. Ma non voglio far passare il messaggio che io sia uno costoso: quello che dico sempre ai giovani, e che molti di loro devono ancora capire, è che si paga “la certezza” del risultato, non il risultato in sé. Se io devo essere sicuro che un effetto funzioni in un certo modo – ad esempio, devo ricreare una testa, colorarla, scegliere un certo tipo di materiale – posso anche decidere di non fare tutto questo. Magari poi la luce la illuminerà bene lo stesso, lo schizzo di sangue sembrerà ugualmente riuscito, perché la fortuna in quel momento aiuta. Possono esserci certamente dei casi in cui il risultato di un effetto che è costato pochissimo può essere paragonato a quello di un effetto che è costato molto di più. Ma se vuoi la certezza del risultato, devi progettare la cosa in un certo modo e devi prevedere i possibili problemi a cui andrai incontro sul set.

Eppure spesso in questi film sei risucito a lavorare con poco o pochissimo ottenendo comunque risultati dignitosissimi…

Perché quando trovo un bel progetto lo accetto anche se non ci sono molte risorse. Investo io stesso. Se trovo dei registi anche giovani che mi lasciano lo spazio per entrare davvero fino in fondo nel loro progetto, sono ben contento di dare una mano e mettere la mia professionalità al servizio del film.

Qualche esempio?

Nel film di Lorenzo Lombardi, In the market (2009), mi sono trovato bene. Il risultato finale è un po’ sbilanciato, perché se la seconda parte, quella ambientata nel supermercato, dove si vedono anche i miei effetti, la trovo molto efficace, non posso dire lo stesso della prima, dove non succede molto e i personaggi parlano un po’ troppo a ruota libera. Ma tutto sommato questa lentezza iniziale si può tranquillamente perdonare a un’opera prima, e del resto gli attori, a cominciare da Ottaviano Blitch dimostrano una notevole capacità e bravura. Lorenzo è comunque il tipo di regista che ha seguito i miei consigli, dando ascolto alla mia esperienza trentennale nel campo degli effetti speciali. Altre volte invece ho avuto l’impressione di essere stato preso e per certi versi “sfruttato”, perché magari a qualcuno poteva far comodo avere il mio nome nei credits, o usarlo nei mercati…

Ti riferisci a qualcuno in particolare?

Per esempio su Morituris (2011) sono stato abbastanza messo da parte. Non posso essere completamente soddisfatto del lavoro sui gladiatori. Avevo suggerito delle scelte visive di un certo tipo, ma per ragioni che mi sfuggono qualcosa è andato diversamente. Nonostante il direttore della fotografia fosse molto bravo e preparato, non si può dire che la fotografia sia particolarmente riuscita. Ed è paradossale, se si pensa che l’attenzione sul set era quasi tutta catalizzata dai mezzi tecnici e dalla Red. Il nostro reparto ha un po’ sofferto questo sbilanciamento d’attenzioni, avevamo sempre pochissimo tempo a disposizione per le nostre cose. Tutto questo l’ho sempre detto ai ragazzi fin dal primo giorno, ma non sono stato ascoltato un granché. Anche da un punto di vista produttivo, figuro come co-produttore con una quota non indifferente, ma il mio nome non compare neanche nei titoli e del resto non ho visto mai nemmeno un euro. Forse c’è qualcosa che non va…

Nella tua carriera ci sono anche alcuni film da regista: si è trattato di esperienze saltuarie o il tuo progetto è sempre più quello di passare dietro la macchina da presa?

La regia è la cosa che oggi mi appassiona di più, anche perché devo ammettere che in tutta la mia carriera raramente sono stato pienamente soddisfatto di come sono stati trattati i miei effetti. Il risultato visivo finale è sempre stato condizionato dal bilanciamento tempo/budget a disposizione, speso il più delle volte per altre cose. L’essere anche regista mi permette di controllare meglio il processo, anche se poi devo ammettere che da quella posizione si hanno talmente tanti altri problemi che si finisce per mettere nel calderone anche gli effetti speciali. Dal mio punto di vista, anch’io finisco per concedere all’effetto meno spazio, meno tempo e meno soldi, perché comunque, conoscendo il mio lavoro, so di poterlo poi salvare in qualche modo: se so che una cosa non è stata costruita dalla parte sinistra, farò di tutto per inquadrarla dalla parte destra. Un regista di solito ti costringe a completare l’effetto indipendentemente dall’inquadratura che gli servirà… Fare il regista è una condizione comunque schizofrenica.

Cosa vedremo di tuo prossimamente?

C’è un film corale, The Profane Exhibit, di cui ho curato un segmento, ormai qualche anno fa. Ma deve ancora essere completato perché dentro ci sono registi diversi provenienti da ogni parte del mondo, tra cui anche Richard Stanley e Uwe Boll. È un progetto molto particolare, nato da un produttore canadese. Il mio episodio si chiama Tophet Quorum e parla di sacrifici umani fatti al dio Moloch. Per l’occasione ho curato regia, produzione esecutiva ed effetti speciali, tutto insieme, un po’ da one man show, supportato ovviamente dai miei collaboratori.

Altri progetti in ballo?

Troppi per essere realizzati tutti. Tra i più vecchi c’è il seguito di Maschera di cera, ovvero L’abominevole Dott. Volkoff, che mi porto dietro fin dall’anno successivo al primo film… Volevo fare anche il remake di Belfagor, che poi è passato ai francesi: il mio aiuto regista conosceva Sophie Marceau, così l’abbiamo coinvolta nel progetto. Guarda caso poco tempo dopo lei fa l’annuncio che avrebbero girato il film con una loro produzione. Nella mia carriera è successo varie volte.

Immagino che non ci sia solo l’horror tra i progetti a cui stai lavorando…

In realtà sarei ben felice di potermi cimentare con generi diversi, ma probabilmente la gente vede con scetticismo questa mia inclinazione, avendomi ormai inquadrato in un certo ambito… Tutti pensano che io mi entusiasmi se mi si porta un progetto pieno di sangue e budella… magari un film interamente bastato sulle morti. Ma non è assolutamente vero. Lo splatter può anche divertirmi, questo si, ma non è che se in un film non muore qualcuno e non c’è sangue, non mi piace farlo. Tutt’altro. Ad esempio, ho nel cassetto da anni un film su Maciste… ma chi sarebbe così pazzo da finanziarlo? Uno dei film che più mi rimase impresso da bambino fu Zorro contro Maciste [1963, Umberto Lenzi], non me lo sono mai più dimenticato. Una volta i film si costruivano così, partendo da situazioni completamente folli, ma che ti colpivano per la loro forza. C’era molto più coraggio. È anche questa follia produttiva che manca oggi al cinema italiano.
Nel mio piccolo, sto cercando di spingere dei progetti che vadano nella direzione di un cinema fantastico che oggi, a parte l’esperimento del nuovo film di Garrone, praticamente non esiste più. Non ho la pretesa di resuscitare il genere, questo no. Però penso di poter contribuire a tenere viva una tradizione un po’ perduta. È da anni che sto cercando di fare un film di fantascienza: prima avrei dovuto fare il remake di Terrore nello spazio… Poi c’è stato un progetto su un famoso caso di ufologia, su una famiglia che viene aggredita da un essere alieno per tutta la notte. L’avevo fatto leggere ai Manetti Bros, con cui avevo lavorato per Paura 3D (2012), che si sono dati da fare con Luciano Martino per produrre il film. Io stesso mi sono visto più volte con Luciano prima che morisse. Lui avrebbe dovuto fare anche Volkoff, il seguito di Maschera di cera… ma poi non se ne è fatto mai niente.
Nonostante tutto credo che questo periodo di crisi produttiva potrà essere anche una fonte di ispirazione personale. Forse mi rinchiuderò nel mio laboratorio a progettare dei film dove non serva altro che il mio talento, se esiste ancora, e la macchina da presa, se così ancora si può chiamare. A volte mi chiedono come mai non faccia anche il regista: non sanno che se dipendesse da me…