Intervista a Leos Carax

La leggenda del sacro cinema. (Locarno, 2012)
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Leos Carax parla di sé e dei suoi film durante un memorabile incontro al Festival di Locarno 2012 dove ha presentato Holy Motors, ora nelle sale.

Al momento di impostare questa discussione, lei ha detto: «Bisogna trovare un approccio, ma non la cinefilia». Per lei la cinefilia è qualcosa di negativo o è l’idolatria delle immagini che la irrita?

Non penso di essere un cinefilo. Ho visto molti film da giovane, quando ho cominciato a fare film. Ho cominciato a farli nello stesso momento in cui scoprivo il cinema. Ho visto, dai 16 ai 25 anni, un sacco di film, cinema muto americano, russo, Nouvelle Vague e penso di aver pagato il mio debito d’amore nei confronti del cinema nei miei due primi film. Da allora ci vado molto meno, al cinema, ma lo amo sempre. Non c’è bisogno di vedere film per amarlo.

Il motore di Holy Motors è il cinema, ma il suo carburante è la vita?

Sì, il cinema è il linguaggio. Le persone se ne stupiscono, ma non i bambini che non hanno questo tipo di problema. Molti per parlare di questo film passano attraverso dei riferimenti, ci sono senza dubbio due o tre cose che si appoggiano ad altre ma non molto più di queste e certamente meno che nella maggior parte dei film; ma siccome effettivamente il linguaggio dei film è il cinema, questo sciocca la gente.

Si potrebbe amare questo film senza conoscere niente della storia del cinema…

È semplice se si accetta di non sapere dove si va per 20 minuti, che è un tempo lungo ma non così lungo.

Pensa che questo diventi inaccettabile, il cinema?

Ah, non lo so. Non conosco il pubblico. Da un lato è più impaziente, dall’altro probabilmente è evoluto grazie a certe serie americane o film, che rappresentano dei confini. Ma questo riguarda alla fine poche persone… No, non conosco bene lo stato del cinema.

Lei conosce lo stato del mondo, il modo in cui le informazioni circolano: la costruzione rizomatica del film lo rende qualcosa di attuale o dipende da una forma di poesia che si sente un po’ sola?

Entrambe le cose. C’è l’orgoglio di un poeta russo, Osip Mandelstam, che diceva: “Di nessuno mai io sarò il contemporaneo”. Ma giocoforza il mondo entra nei film ed è questa la ragione per cui talvolta le mie lavorazioni sono state lunghe. Ma io so anche che occorre tempo. Le prime settimane di lavorazione bisognerebbe gettarle nella spazzatura. Tutti sono così concentrati che è soffocante. Viene sempre male. Per cui io mi organizzo sempre per rigirare più tardi l’inizio o per cominciare con cose che verranno certamente tagliate, ma quella che si chiama vita non è per forza lo stato del mondo. È solo la vita, tanto la mia che quella delle persone che partecipano al film. Un film non è un tunnel nel quale si sprofonda, dove ci si ritira da tutto. Bisogna che a un certo punto questo si ricolleghi con l’esperienza della vita, per cui è sempre difficile, c’è anche questa cosa che si chiama concentrazione, quindi la preparazione serve a costruire questo tunnel ma dopo bisogna fuggirne.

Ripenso a uno dei suoi film più belli, Pola X, un film molto ambizioso in cui si parlava di guerra, di frontiere, di Europa. Ed è per questo che il film non è stato capito quando uscì, anche se ora è stato rivalutato…

Io non so perché i film piacciano o non piacciano. Questo è quello dei miei film che senza dubbio è piaciuto di meno. Non rivedo i miei film, quindi non lo so. Nei miei film non esiste la paura del ridicolo, se volete, per cui i miei film sono in un certo modo grotteschi agli occhi di parecchi persone. Penso che questo fosse il caso di Pola X.

Lei ha convinto una persona così schiva come Gérard Manset a darle un brano per Holy Motors, come è accaduto?

Non conosco che questa canzone di Gérard Manset Revivre, gli ho domandato se potevo utilizzarla, lui ha detto di sì a condizione di poter vedere la sequenza. È venuto a vedere la scena quando l’abbiamo girata ed è stato d’accordo.

Nello stesso anno due film, Cosmopolis e Holy Motors, si svolgono all’interno di una limousine… Cosmopolis è l’adattamento di un libro pubblicato dieci anni fa. Ma penso che queste limousine siano affascinanti. A me sembrano degli eccellenti motori di fiction. Sono erotiche e morbide. Allo stesso tempo sono fatte per essere viste anche se non si può vedere ciò che hanno all’interno, quindi sono come una bolla virtuale. Siete all’interno e non siete nella vera vita. Dunque, in ultima analisi, mi sembra abbastanza normale che molti cineasti si siano ispirati a esse.

Queste limousine sono anche come delle macchine da presa, delle scatole nere aperte sul mondo. Holy Motors è un film contro la virtualità?

Non lo so. Amo l’invisibile, ma il virtuale non è l’invisibile, o meglio, ne è la versione modesta. L’invisibile è abitato, laddove il virtuale è proposto come un mondo che si potrebbe abitare, un mondo quindi senza esperienza. Il film parla di questo, anche, ma non è una teoria, non è niente. Quando ho cominciato c’erano ancora le cineprese a motore, avevo 17 anni. Ho girato con una Mitchell, la macchina da presa più grande e anche la più bella. I miei ultimi film li ho girati con una macchina grande così, cioè più piccola di una testa. È certo che ci si sente meno potenti con questi oggetti, è ciò che dice Monsieur Oscar nel film, si fa fatica a crederci talvolta. Ora, per fare del cinema occorre crederci, se la fede è piccola non va bene. Ci si arriva lo stesso, ma l’esperienza sarà differente. Le persone faranno dei film con una macchina che non si vedrà. Quanto a me, lavoro ormai con la Go-Pro, che è minuscola.

Noi siamo della stessa generazione, vivevo quest’epoca in modo totale. Vedendo Rosso sangue mi sono chiesto come fosse possibile che un cineasta così giovane come lei allora riuscisse ad avere la distanza sufficiente per vedere la propria epoca con un tale distacco.

Non ricordo come ho fatto. Ho scoperto il cinema a 16 anni, così, con la sensazione di aver trovato il mio paese, la mia isola, un’isola circondata d’acqua, dunque non ci si arriva facilmente. Il mondo e il cinema… L’uno è il contrario dell’altro. Quando si è nella vita è più difficile guardarla, quando si è su quest’isola la si vede meglio. Si vede come attraverso un vetro monodirezionale. Può anche darsi che quest’isola sovrasti, è questo che io amo nel cinema. Le persone dicono che i film sono dei sogni. Io non penso lo siano, l’esperienza della proiezione è un sogno. È un’esperienza molto forte scoprire il cinema quando si è un bambino. Si è nel nero, circondati da persone che non si conoscono salvo la propria madre o la nonna forse, e avere questa macchina enorme alle spalle, che proietta qualcosa di talmente più grande di noi: ecco, questa esperienza può avvicinarsi al sogno, ma fare dei film no, assolutamente. Credo che in quegli anni di cui lei parla, i miei due o tre primi film era il cinema a nutrirli. Gli ero talmente riconoscente di avere trovato un mondo dove abitare e li ho fatti in questo sentimento di amore.

A proposito di Holy Motors, ha avuto problemi di montaggio in fase di post-produzione?

No, nessuno, adoro il montaggio. Il problema del montaggio è sempre quello di fermarsi. I soli problemi sono tecnici e molto poco interessanti. Tutta la trafila oggi è numerica e nessuno sa nulla di questo. Quindi tutto è complicato. Per nessun risultato. Al punto di arrivo i film sono proiettati su macchine che a loro volta le persone non conoscono. Ci hanno venduto il digitale come ci venderebbero un medicamento, ma per una malattia che nemmeno conosciamo, non sappiamo nemmeno cosa dovrebbe guarire e questo è un problema. Ma il montaggio puro è il momento in cui si pensa un po’ allo spettatore. Si fanno i film per dei morti ma li si mostra a dei vivi, per cui bisogna domandarsi quale sia la porta d’ingresso in questi film, fare che essa non appaia solo alla fine. Ho tentato di fare attenzione a questo, ma non sono sicuro di esserci riuscito… (silenzio) Mi scuso ma parlare di cinema per me è un po’ un incubo, e parlare di cinema in piena luce è un grosso incubo (ride). Il cinema è una cosa della notte, Les amants de la nuit, La nuit du chasseur… Cerco comunque di farlo.

Il suo nome d’arte Carax contiene la parola “oscar”, è un’ambizione hollywoodiana?

Ho cambiato nome a 13 anni, ben prima di sapere che avrei fatto del cinema.

I suoi primi film erano dominati dalla malinconia, gli ultimi due da un humour burlesco, come se lei ringiovanisse, ridiventasse bambino, più libero.

Ho girato talmente poco che se non avessi trovato questo slancio che definirei grottesco o comico o farsesco, sarei morto. Merde, che non è un lungometraggio e dura una quarantina di minuti, credo mi ha fatto molto bene, perché, se lei considera, da 20 a 30 anni ho fatto 3 film, da 30 a 40 anni ne ho fatto 1, da 40 a 50 ho fatto 40 minuti. Non andava bene. Dovevo escogitare qualcosa. È vero che le videocamere numeriche che io detesto tanto mi hanno aiutato perché ho potuto girare a prezzi più bassi e più velocemente. Nello stesso tempo ho abbandonato un sacco di cose. A partire da: cazzo, non ho più guardato i rushes, per esempio. Quel che vedevo sullo schermo non era né il mio lavoro né quello del capo operatore, ma il rapporto tra tutte queste macchine e lo schermo che si è scelto. è molto difficile oggi interessarsi all’immagine.

È la fine dell’aspetto artigianale del cinema? A tal proposito, Gli amanti del Pont-Neuf è stato probabilmente l’ultimo film artigianale con delle scenografie all’antica.

Mi trovavo in Polonia una settimana fa e ho visto uno studio che stanno costruendo sul mare. Ci si può girare un film su sfondo verde, è tutto a base di motion control. È possibile fare la post-produzione in tempo reale. È molto interessante, d’altra parte. Stanno per farci una scuola. Le persone nasceranno al cinema con queste metodologie. Questo però non è stato il mio caso, io ho cominciato negli anni ’70, ’80 quando c’erano ancora delle grandi macchine da presa e il mio primo cortometraggio era fatto con questa enorme cinepresa. Poi progressivamente sono passato a delle macchine di grandezza media. Ma quando si vede un carrello degli inizi del cinema, di Murnau per esempio, una macchina che segue un uomo all’alba per esempio, si ha davvero la sensazione, a causa della pesantezza della macchina, che sia Dio che sta guardando quest’uomo. Oggi prendete lo stesso tipo seguito da una videocamera su YouTube, non vi dà affatto questa sensazione, quindi bisogna ricrearla questa sensazione, è il lavoro di oggi.

Che rapporto ha con la bellezza?

Eccellente (ride). È una cosa che cambia con l’età o con i tempi. La ricerca della bellezza, quando si è giovani, è un po’ forzata, la si cerca a ogni costo e in ogni cosa, oggi io tento di lasciarla venire o di trovarla nelle cose che non sono belle agli occhi degli altri. Ma forzatamente, attraverso questo si arriva al cinema. Di questa ricerca della bellezza è questione in Holy motors, è il primo mistero: il gusto che si ha. Esiste un gusto personale, e in cosa differisce da quello degli altri? Il cinema mi è parso come il solo luogo in cui fossi sicuro del mio gusto. Davanti a un dipinto, io non sono molto sicuro, se la mia compagna mi dice: «È straordinario», io le rispondo: «Sì». In venti secondi di un film io so se sarà importante per me o no. Vedo subito se è inventato o se è copiato, avverto subito la parte di sincerità che è importante ma non sufficiente (ci sono film sinceri che non sono tuttavia interessanti). Tutto questo io lo so ed è per questo che il cinema è la mia isola personale.

Lei ha un rapporto molto forte anche con la letteratura. In Holy Motors c’è Henry James, Robert Musil, ci sono parole di canzoni in tutti i suoi film: Manset, Barbara, Bowie. Le parole sono importanti quanto le immagini nei suoi film.

Sì ma non è il mio paese. È incredibile tutto ciò che il cinema può. Lo si dimentica. Per cui io tento. Avrei amato una vita di musica. La più bella delle vite è quella dei musicisti, dei compositori e dei cantanti: una persona che può attraversare il mondo senza niente, con una chitarra, magari trovarla sul posto, comporre, scrivere, cantare per la gente.

Essere una rock star…

Rock star è già il successo e il successo è complicato. Ho sempre cercato di approfittare delle parole o delle musiche degli altri perché io non so comporre e mi domando sempre come introdurre questi elementi estranei, una musica, una canzone, un corpo che danza là dove fino a poco prima non faceva che camminare. Io non faccio commedie musicali ma vorrei.

Però ha composto la canzone di Holy Motors che canta Kylie Minogue.

Solo le parole, non la musica

La sequenza della samaritana in Holy Motors si apparenta alla commedia musicale.

Sì, è cantata, è coreografata ma non è danzata. è stato il miracolo dell’incontro con Kylie Minogue. Due mesi prima non sapevo che avrei girato con lei. Conoscevo il suo nome ma non sapevo chi fosse veramente. E lì mi sono imbattuto in qualcuno di talmente puro… Ho ereditato questa purezza. Ecco, io parlavo della solitudine del cantante, del compositore, ma una delle cose belle del cinema è quando non si è soli. Non si fa un film tutto da soli, per fare un film occorrono salute, soldi e almeno due o tre persone.

La si considera un individuo solitario, silenzioso e misterioso. Lei si sente a suo agio, felice, sul set?

C’è di tutto. Penso di aver vissuto i miei momenti peggiori e quelli più belli facendo film. Ci si può sentire impostori, è una cosa che capita spesso. Non ho fatto studi di cinema, non ho lavorato in altri film prima dei miei, quindi, se lei arriva a 18 anni e dice alle persone: «Voglio fare un film, so farlo, datemi i soldi», non è naturale, comincia con una menzogna. Ma questo sentimento di menzogna è alla fine ricchissimo ed è sempre lì oggi, soprattutto per il fatto che giro così poco. A ogni nuovo film, non sono più un cineasta. Le persone della troupe ho l’impressione che mi guardino dicendosi tra loro: «Questo qui non ha girato da così tanto, chissà cosa ci farà fare». Ma va bene, è un cosa che ispira, anche. A ogni modo, anche se avessi potuto fare più film, non ne avrei fatti più di quelli che ho fatto e ad ogni modo è sano immaginare ogni film come se fosse il primo e ultimo.

Mi parla di Denis Lavant?

Io non conosco Denis. Abbiamo fatto cinque film insieme. L’ho incontrato, avevamo la stessa età, 21, 22 anni, e la stessa taglia. L’ho scoperto grazie a una foto. Non faccio provini, ma l’ho fatto venire davanti a una macchina da presa, era per il mio primo lungometraggio. Avevo già ritardato la lavorazione di un anno perché non trovavo questo ragazzo. Ero arrivato al punto di dirmi che non avrei mai trovato questo ragazzo che cercavo, che non avrei mai fatto cinema. Fisicamente, era singolare, ma non ero sicuro quando gli dissi: «Tentiamo insieme». Poi si è fatto questo primo film e io mi sono detto che l’avevo usato al di sotto delle sue possibilità. Il film non era stato immaginato per lui, lui è rientrato in qualcosa che già esisteva. Per cui in seguito ho immaginato altri film dove lui sarebbe stato ogni volta se stesso all’ennesima potenza. Come attore io gli potevo domandare praticamente tutto. Mi sento un po’ come Tex Avery, con Denis Lavant. Allo stesso tempo, dopo Merde vedo che può interpretare cose che non gli avrei mai chiesto prima. Però Denis io non lo conosco, non abbiamo mai pranzato insieme, non è un amico. Ma per tutti questi film che ho fatto con lui, mi è indispensabile.

Perché questo titolo, Holy Motors?

Non ricordo. “Motors” ad alcuni ha fatto pensare a un anagramma di Morts, ma non è così. Mi è apparso, ma queste sono cose che appaiono dopo, che il film potesse essere visto come un film futurista, d’anticipazione, di fantascienza in cui gli uomini, le bestie e le macchine cospirano contro il mondo virtuale di cui stavamo parlando prima. Quindi questi esseri, perché io amo anche le macchine, avevano un cuore e ho chiamato questo cuore “Motore sacro”.

Poi perché in inglese?

Ho già avuto parecchi titoli in inglese. Sono per metà americano e per metà francese. Holy Motors è il nome del garage in cui vanno a dormire le limousine di notte e queste limousine sono internazionali.

Qual è il miglior giorno della sua vita, il peggiore e cosa cambierebbe su questa Terra?

Non saprei rispondere e se lo sapessi non vorrei rispondere. La Terra è vasta. Quel che mi inquieta è la mancanza di coraggio. Il coraggio diminuisce. Non parlo solo del coraggio nel cinema, il coraggio fisico si riduce, il coraggio civico, il coraggio poetico. Bisognerebbe inserire dei corsi di coraggio nelle scuole. Il virtuale non aiuta il coraggio. Quelle che si definiscono le Reti non sono reti di resistenza ma di connivenza, ci si sente grandi vivendo piccoli e nascosti.

C’è una contraddizione: lei dice di amare le macchine ma non il virtuale…

Amo i computer ma non sono macchine queste. Per me bisogna vedere il motore perché si possa parlare di una macchina. Se non posso toccare, allora è una Rete, è comunicazione e io questo non lo amo. Le nuove videocamere non sono delle macchine ma ci si possono fare cose molto belle. Il film evoca questo, in un certo qual modo. Sono stato rimproverato, soprattutto negli Amanti del Pont-Neuf, di rendere le cose impossibili. Io pensavo a un certo punto che bisognasse passare attraverso l’impossibile. Ho spesso citato Cocteau che diceva “All’impossibile siamo tenuti”, bisognava andar contro, contro le tecniche per esempio, bisognava che il montaggio andasse contro il girato, cose così. Quando si cerca di creare qualche cosa mi sembra che si debba andare contro. Il problema dei computer è che non sono né a favore né contro, sono in pausa. Non c’è l’esperienza del tempo per esempio. Agli inizi io facevo molte riprese e i produttori erano nervosi, oggi se ne fregano perché le riprese non costano niente. Per ritrovare l’esperienza e il rischio di fare, bisogna reinventare nuove sfide con il racconto, le relazioni con l’equipe, l’immaginazione. A questa condizione il passaggio da una tecnica all’altra è interessante, ma solo a questa condizione.

Serge Daney l’avvicina a una tradizione del cinema francese da preservare: Akerman, Doillon, Garrel. Qual è il suo pensiero sul cinema francese attuale, lei si riconosce in una comunità?

Questo è il lavoro di Daney. Io spero di non far parte di una tradizione anche se sicuramente ne faccio parte. No, ero troppo lontano dal cinema. Non mi fermo a riflettere sul cinema francese, non mi interessa. Ho due o tre persone che amo nel cinema francese ma non posso riflettere in termini di cinema francese se non in termini di produzione, perché faccio fatica a fare i miei film. Io penso al cinema, non penso al cinema francese.

Il suo pubblico è internazionale ed è rimasto nonostante i lunghi momenti di interruzione.

Bisogna che i film viaggino, altrimenti non esistono. I miei non fanno molti incassi là dove arrivano, ma arrivano dappertutto. Daney equiparava giustamente dei film a dei viaggi. C’è una parola che è importante e rimpiango che non sia pronunciata in Holy Motors: è la parola “esperienza”. C’è questa definizione dell’esperienza data da uno scrittore francese: “Il viaggio al limite delle possibilità dell’uomo”.

Ci può parlare di Edith Scob?

Avevo filmato Edith Scob 20 anni fa in Gli amanti del Pont-Neuf con il suo fidanzato dell’epoca che è ancora oggi suo fidanzato, e poi al montaggio non sono rimaste che le sue mani e i suoi capelli. Le dovevo un film. L’ho immaginata qui che guida il signor Oscar da una via all’altra perché è così che avevo deciso il film: un uomo che viaggia di vie in vie in una macchina enorme con una donna come autista di questa macchina. Può essere che la prima immagine che ho avuto fosse quella di un’allegoria della morte nei quadri, qualcuno di molto emaciato. E mi sono venuti il colore biondo e il viso straordinario di Edith. Lei è totalmente nella parte. Lei e Kylie Minogue sono le due facce del film. È sorprendente perché loro hanno lo stesso colore biondo, lo stesso pallore e la stessa purezza e la stessa parte di infanzia, sono due bambine.

I suoi film sono limpidi per il suo pubblico di cinefili ma non per i critici letterari per esempio.

Si può amare un film per delle cattive ragioni. Un film è sempre un qui pro quo. Si colpisce qualche persona in differenti Paesi. Io spero che il film non colpisca solo i cinefili, i cinefili hanno il diritto di essere colpiti dal film. Mi è sempre sembrato che si fanno film per i morti e che li si mostra ai vivi. Io sono sempre alla ricerca di uno spettatore o di una spettatrice che non siano venuti a vedere il film. C’è sempre uno spettatore da qualche parte là fuori che manca.

Lei fa dei disegni preparatori nel momento dello script, qual è il suo processo?

Io non sono uno scrittore, non faccio una sceneggiatura fino a un certo punto quando sono costretto a darne una per i soldi e per le persone della troupe. Io faccio il film su due o tre sensazioni. Queste immagini ne portano con sé delle altre. Le limousine per esempio. Ho cominciato a vederle negli Stati Uniti, dieci anni fa, poi a Parigi nel mio quartiere durante i matrimoni cinesi. Poi un’altra immagine, una vecchia zingara su un ponte a Parigi, incrociata sull’argine. Non sono in grado di entrare in comunicazione con questa donna, non parlo la sua lingua, ma io e lei siamo entrambi degli emarginati. Ho pensato di filmarla, di fare un documentario, ma mi è venuta paura che questo documentario mi prendesse una vita. L’ho trasformata in fiction: la vecchia gitana è divenuta Denis e una vettura trasporta Denis da una vita all’altra. Poi la gitana è divenuta un attore che viene ingaggiato per interpretare una vita, poi un’altra vita.

Le automobili sognano, sono stanche. Può descriverle come personaggi? Come vivono?

Bella domanda, ma interpretare il mio film mi è difficile. Potrei dire che sono condotte da un’esperienza poetica di viaggio.

Il coraggio è sinonimo di fiducia in sé?

Se si ha piena fiducia in sé non c’è bisogno di coraggio ma io se guardo il bambino che ero non avevo fiducia in me, ma nel fatto che dovessi tentare le cose. Da bambino, non so più a che età, e senza dubbio questo è vero per tutti i bambini, io scendo le scale, mangio una mela e sento una voce che mi dice: «Lui scende le scale e mangia una mela». Non sono credente ma a partire da quel momento si ha fiducia in sé. Si è seguiti, si è una storia e occorre scrivere questa storia. Se si capisce che bisogna scrivere la propria vita sarà forse l’inizio del coraggio.