Intervista ad Alex Crippa

Incontro con l'autore di 16 e Fuck
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Alex Crippa, prolifico sceneggiatore di fumetti. Suoi lavori sono usciti in Francia per case editrici quali Delcourt, Casterman, Bamboo (100Ames, Nero, Le Missionnaire…) e in Italia per Bonelli (Dampyr, Dylan Dog) ed altri editori come Renoir Comics, Bao, Edizioni Inkiostro. Per quest’ultimo, nel 2017 ha pubblicato il graphic novel 16, e uno nuovo, Fuck, è in uscita a Lucca Comics 2017.

Alex, presentati ai lettori di Nocturno. Chi sei e qual è il tuo percorso?

Ciao a tutti. Sono sceneggiatore e insegnante di sceneggiatura. Mi piace raccontare storie e mi piace incoraggiare a farlo. Le mie prime passioni sono state la narrativa e soprattutto il cinema di genere, e infatti poco più che ventenne fondai insieme all’amico Manuel Cavenaghi Bloodbuster, una videoteca milanese che tutti i lettori di Nocturno conoscono bene. Era il lontano ’99, io mollai dopo un paio d’anni per occuparmi a tempo pieno della scrittura creativa. Avevo studiato sceneggiatura alla Scuola del Fumetto di Milano, scoprendo nell’arte sequenziale il mezzo espressivo a me più congeniale. Ho cominciato a sceneggiare per l’animazione, per il web, per qualche anno ho anche sceneggiato videogames per la Kinder Ferrero. Poi sono andato ad Angoulême, il festival di fumetto più importante d’Europa, e il mercato francese mi ha aperto le sue porte. Ho pubblicato una dozzina di volumi per grandi e medi editori d’oltralpe, tutti titoli poi rieditati in Italia. Per la Sergio Bonelli Editore ho sceneggiato Dampyr, una storia per il Dylan Dog Color Fest, e l’anno prossimo uscirà una mia storia per Nathan Never. Da qualche anno l’insegnamento è la mia occupazione principale e continuo a scrivere per editori italiani indipendenti, come Esh (Splatter), Bugs Comics (Mostri) ed Edizioni Inkiostro.

Pensando ai fumetti come forma di narrazione, l’aspetto più appariscente è il disegno. La letteratura disegnata, tuttavia, vive anche di scrittura. Raccontaci un po’ la prospettiva e il lavoro dello sceneggiatore.

Mi piace muovermi all’interno di una struttura narrativa abbastanza rigida, almeno per quanto riguarda la forma. Ogni fumetto ha una foliazione e un formato preciso, dettati dalle linee editoriali del committente. In parole povere, quando sceneggi un fumetto sai già quante pagine dovrà occupare la tua storia e pure quante vignette, in media, dovranno esserci nelle singole tavole. Sceneggiare un fumetto è come praticare arti marziali miste nella gabbia: ti giochi tutto lì dentro, in confini ben delimitati, senza l’ausilio di attrezzi o aiuti esterni, contando solo su te stesso e il tuo avversario. La sinergia che si crea, che si deve creare, tra sceneggiatore e disegnatore è infatti un felice mix di complicità e conflitto, accordi e compromessi, amore e odio. La visione che ha lo sceneggiatore della sua storia non combacerà mai con quella del disegnatore. Il talento di uno scrittore di fumetti consiste anche nel lasciare spazio alla visione del disegnatore, alla sua interpretazione delle inquadrature, delle sequenze, delle atmosfere, delle emozioni. Una lezione che ho imparato praticando questo lavoro è banale ma fondamentale per continuare a farlo con intelligenza: il pubblico non legge la tua sceneggiatura, legge il fumetto che il disegnatore ha tratto da essa. Riuscire a trasmettere la propria creatività narrativa attraverso l’ingombrante filtro di un creatore di immagini è una cosa molto difficile, che mi stimola ancora parecchio. Tentando un’altra, scontata, similitudine direi che lo sceneggiatore è la mente, ma senza il braccio del disegnatore non colpisce nessuno.

In 16 non ti risparmi per nulla, dando vita a una sorta di risposta meno compiaciuta ad A Serbian film, trattenendoti dal mostrare troppo ma non di meno raccontando una storia molto dura. Credi che ci sia un limite etico nella narrazione? Qual è il confine da non attraversare?

Più che A Serbian film cito Hardcore di Paul Schrader. Lo spunto iniziale della mia storia è simile ma aggiornato al presente, dove il nastro delle vhs è stato soppiantato dai pixel dei nostri device. Non c’è compiacimento in 16, come hai giustamente evidenziato. Non c’è pornografia, nonostante l’argomento trattato sia proprio l’abuso della medesima. Se fossi stato troppo esplicito avrei distratto il lettore, avrei deviato l’attenzione dal “cosa” al “come”. Riallacciandomi alla risposta precedente, lo sceneggiatore di fumetti deve sempre essere conscio della rappresentazione grafica delle idee che vuole mettere in scena: una vignetta esplicitamente pornografica rischia di comunicare solo a livello estetico, non contenutistico. Viceversa, non mostrare sfacciatamente l’estremismo, la violenza, il disgustoso, obbliga te, lettore, ad immaginarti tutto, a fantasticare, volente o nolente, sulla scena a cui non hai potuto assistere. Invece di soddisfare il tuo sguardo, costringo te a guardarti dentro e tirare fuori il tuo di peggio. Fino a che punto puoi arrivare ad immaginare? 16 parla proprio di questo: qual è il tuo limite? Quale il confine da non attraversare, per riallacciarmi alla tua domanda. Me lo sono chiesto prima di concepire il soggetto. Oggi abbiamo accesso a tutto sul web, chiunque può trovarvi qualunque cosa e l’unico limite, per molti, è semplicemente la propria capacità di sondare i meandri più oscuri della rete. Il monitor del nostro computer non è un limite, è uno scudo che ci protegge dalla realtà. Così ho pensato a un modo per rompere questo scudo e l’ho trovato in un volto: riconoscere la propria figlia in un video ai limiti dello snuff rende spaventosamente reale ciò che stai guardando. Il mio limite personale è proprio questo: finché ciò che guardo è fiction e/o gode del consenso di tutti i partecipanti, può essere rappresentata qualunque cosa. Ma se la violenza è reale e non voluta, la condanno senza mezzi termini. Il problema è riuscire a distinguere. O voler distinguere…

Parlaci del tuo nuovo lavoro, Fuck.

Anche in questo caso lo spunto è cinematografico: volevo sceneggiare il mio Guerrieri della notte… Suona come un sogno adolescenziale, e infatti è proprio così. Sentivo l’esigenza di una storia semplice e lineare ma tosta, un on the road le cui tappe fossero, anche, una scusa per inscenare ciò che più mi appaga e diverte in un fumetto oltre ad avere una funzione narrativa, che va dal semplice “spostati da A a B” al “evitiamo C perché in B ci siamo fatti un nemico e forse in D non ci ammazzano”. Il miglior complice in questa avventura non poteva che essere Giorgio Santucci, un disegnatore che ha fatto del dinamismo grafico e della perfezione estetica una cifra stilistica ormai nota non solo negli ambienti prettamente fumettistici. Penso alle copertine di alcuni recenti numeri del settimanale FilmTV o a quelle dei dischi di gruppi nostrani death/gring/black/thrash e via metallizzando. Avendo tale potenza di fuoco dalla mia parte, è stato spesso inutile contrapporvisi quanto piuttosto lasciarsi travolgere. Qualche esempio? Un inseguimento tra due auto diventa un inseguimento tra un’auto e una moto fichissima, infermierine sexy si trasformano in monache nerborute, una banda di motociclisti virili cambia sesso diventando ancora più cazzuta. Ah, giusto, la trama: corri da A a Z senza farti uccidere e porta l’anello al monte Fato… Al posto dell’anello uno smartphone, e invece della sua distruzione la sua conservazione. Tutto chiaro?

Qual è la differenza fra lavorare sulle tue graphic novel e su personaggi consolidati come gli eroi bonelliani?

A caldo risponderei che è più difficile raccontare personaggi e mondi altrui piuttosto che muoversi in un universo creato da te, semplicemente perché tu ne conosci le regole e i meccanismi. E invece a freddo ti dico l’esatto contrario: è molto più difficile rendere credibili e intriganti personaggi e situazioni che nessuno conosce, di cui nessuno ha ancora letto nulla e di cui non esiste un background noto e condiviso. Devi convincere il lettore con le tue sole forze, senza la rassicurante corazza del brand. Non che sia una passeggiata prendere in mano un personaggio altrui e farlo muovere e parlare esattamene come tutti si aspettano, ma in questa operazione puoi sempre contare sulla bibbia della sua serie. Quando scrivi una storia tua sei solo contro tutti!

Cosa ne pensi della scena italiana e internazionale? Come vedi il futuro del fumetto?

Negli ultimi anni il mercato del fumetto, come quello dell’intrattenimento in generale, ha subito un crollo, magari non così drastico come alcuni sostengono, ma che si è fatto decisamente sentire. Si vendono meno fumetti rispetto a 15-20 anni fa, in parole povere. In Italia come nel resto del mondo. Io, stranamente, sono ottimista. Per due motivi. Uno legato al prodotto in sé, all’“oggetto fumetto” che, a differenza di altre forme di intrattenimento, gode di un supporto meno riproducibile, duplicabile, scaricabile. A differenza di film e musica, il fruitore medio di fumetti preferisce ancora avere tra le mani un albo da leggere e guardare, da toccare, da annusare (in tanti lo fanno, pochi lo ammettono…). Leggere un fumetto su un monitor non è la stessa cosa, considerando anche, e non ultimo, che esistono svariati formati di fumetti per altrettanti formati di tavole (dal gigantesco formato francese a 4 strisce a colori fino a quello tascabile di Diabolik con tavole a due vignette) non tutti felicemente adattabili al monitor di uno smartphone, di un tablet, di un laptop. Insomma, si preferisce ancora acquistare fumetti cartacei che digitali, e quindi si spende ancora per leggerli. Per non parlare dei collezionisti pronti a sganciare cifre considerevoli per rarità, speciali, variant cover, white cover e via di feticcio. Il secondo motivo che mi spinge a credere ancora, e fortemente, nel media fumetto come forma espressiva è legato paradossalmente proprio all’instabilità del mercato: in condizioni di crisi la creatività è più fertile. Perché costretta a reagire, a lottare, a sgomitare per farsi sentire quando tutto intorno c’è il panico e chi urla più forte crede di essere ascoltato di più. E’ quando diventa più difficile pubblicare, vendere, essere letti, è in quel momento che l’autore deve farsi un esame di coscienza e chiedersi: ho davvero voglia di andare avanti? Ne vale la pena? Perché lo faccio? Per chi lo faccio? Se la risposta è “per me stesso”, è arrivato il momento di smettere. Se è “per continuare a raccontare”, allora vai avanti e racconti quello che vedi, che senti, che vivi. Qualcuno ti ascolterà. Magari saranno in pochi, ma tu sarai ancora riuscito a farti leggere. Per come la vedo e vivo io, è proprio quando la situazione si fa disperata che quello che hai da raccontare si fa più interessante.