Intervista ad Alessio De Santa

Parla l'autore della graphic novel sullo studio Disney, The Moneyman
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Nocturno intervista Alessio De Santa, autore di The Moneyman, graphic novel edita da Tunuè, che racconta la storia dello studio Disney dal punto di vista inedito Roy O. Disney, fratello di Walt Disney e vero e proprio pilastro dietro le quinte di uno di un vero e proprio impero dell’intrattenimento.

Alessio, presentati ai lettori di Nocturno.

Sono nato a Trento nel 1983, ma vivo a Milano ormai da 15 anni. Lavoro in comunicazione in una grande azienda e al contempo scrivo (e a volte disegno) racconti e libri a fumetti. Il mio primo libro si chiama La Principessa che amava i film horror, pubblicato per Tunuè nel 2014 e ristampato in occasione di Lucca 2016.

Da dove nasce l’idea di raccontare l’epopea Disney da un punto di vista tanto particolare?

L’idea di The Moneyman è nata nel 2007, mentre frequentavo un corso per disegnatori alla Disney. C’era una piccola biblioteca ricca di volumi biografici su Walt, e ho iniziato a studiarli. L’interesse credo nascesse dal fatto che sono figlio di imprenditori e so quanto ho dovuto penare per far capire loro che la vena artistica è una chiamata a cui è veramente difficile sottrarsi, e in quel periodo in particolare vedevo sempre più difficile far coincidere la gioia (della quale pretendevo che il mio lavoro da artista fosse intriso) con una prospettiva economicamente sostenibile. In Walt vedevo una figura che coniugava le due anime (quella di artista e quella di businessman), e volevo capire come c’era riuscito, a quale prezzo. Ma più leggevo le biografie a lui dedicate e più mi accorgevo che non appena si arrivava nel dettaglio, non appena ci si avvicinava a questioni che non riguardassero la sfera creativa, di colpo queste glissavano. La svolta nella mia ricerca è arrivata con la lettura di due biografie: Vita di Walt Disney di Michael Barrier, e Building a company di Bob Thomas. La prima (Tunuè, 2009) è la più completa mai pubblicata in Italia, e in diverse parti cita e chiarisce il rapporto tra i fratelli. La seconda (Hyperion, 1998) non è mai stata tradotta in Italia né ristampata in America, sono riuscito a reperirla usata, ma è stata davvero un’impresa. Quest’ultima, nonostante sia commercializzata come un manuale di auto-aiuto per imprenditori, altro non è che una biografia di Roy Oliver. L’ho scoperto anch’io solo dopo che mi è stata consegnata, immaginatevi lo stupore. Queste due biografie hanno il pregio e il difetto di essere estremamente ben documentate, risultando così piuttosto impegnative per il grande pubblico. Quello che abbiamo cercato di fare con The Moneyman è usare la stessa materia per costruire una storia credibile, che ci avvicinasse ai personaggi.

Raccontaci il lavoro di ricerca dietro a un lavoro biografico come The Moneyman.

La mia ambizione (se ci penso adesso mi viene da ridere) era raccontare tutta la storia dello studio Disney, in modo storicamente ineccepibile. Di qui lo sforzo di documentazione iniziale, che è stato veramente impressionante e ci ha preso forse più tempo di quanto non abbia richiesto la scrittura effettiva della sceneggiatura. Dico “ci” perché, come recita la copertina, The Moneyman è un lavoro corale, ci abbiamo lavorato in cinque. Filippo Zambello, che ha curato la maggior parte della sceneggiatura, ha lavorato con me alla documentazione iniziale. Abbiamo cominciato creando un documento che unificasse le biografie lette, in modo da avere una cronologia forte, che ci permettesse di muoverci con dimestichezza all’interno degli eventi e di non fare strafalcioni in fase di taglia-e-cuci. Una volta concluso questo documento (che ci è letteralmente esploso in mano, diventando lunghissimo), abbiamo avuto la necessità di tagliare. L’abbiamo ridotto ad un terzo (non senza grattacapi, perché purtroppo abbiamo dovuto togliere delle parti davvero bellissime). Da lì sono nate trame e sottotrame che hanno composto i capitoli. È subentrato a questo punto il lavoro di documentazione visiva di Lorenzo Magalotti, il disegnatore del libro. Quando ha cominciato questo lavoro Lorenzo aveva 23 anni, ma sfogliando il suo portfolio ho notato che aveva una particolare attenzione fotografica per gli sfondi. L’ho messo alla prova e ha dimostrato di avere la testa per portare a termine un lavoro così lungo (180 pagine con gabbia alla francese, quasi tre volte un albo di Dylan Dog!). Gli abbiamo fornito in sceneggiatura un sacco di immagini che avevamo trovato nel corso della nostra ricerca, ma lui si è spinto molto oltre, lavorando sulla forma degli abiti, sull’arredamento e sulle acconciature in modo maniacale. A completare il lavoro, sono subentrate le due coloriste, Giulia Priori e Lavinia Pressato, che hanno lavorato in coppia con Lorenzo sulle foto per creare le atmosfere che la storia richiedeva.

Qual è la storia che hai voluto raccontare, narrando la vita di Roy Disney?

Credo che questa storia mi abbia chiamato a sé per diversi motivi: da un lato è una case history di successo, una storia di business, e credo di esserci entrato per questo motivo (all’epoca le storie aziendali mi incuriosivano molto). Poi però, mano a mano che la studiavo, mi sono accorto che era anche un caso esemplare dei contrasti che si creano tra la mente creativa (portata all’assoluto, al colpo di genio, all’incostanza) e quella più razionale (portata al compromesso, al lungo termine). Entrambe sono state fondamentali, e vedere come si sono comportate nelle diverse fasi della storia dell’azienda per me è stato un viaggio bellissimo. Infine questa è una storia di amicizia e amore fraterno, ma anche di due visioni del mondo contrapposte: Roy muore soddisfatto e sconosciuto, mentre Walt muore irrisolto e famoso, anzi più che famoso: immortale nel ricordo della gente. Roy viveva per le persone che gli stavano intorno, Walt per la Storia: chi dei due abbia vinto è una domanda che mi rimane e che vorrei essere riuscito a trasmettere al lettore.

Racconti la storia di un colosso dell’intrattenimento dalla nascita fino ai primi anni ’70, un impero che, al giorno d’oggi, occupa una posizione dominante nel mondo dell’intrattenimento. Cosa è rimasto e cosa è cambiato della realtà che racconti tu?

È un discorso interessante, da appassionato di case histories aziendali il problema della successione, della morte del “padrone” nelle aziende padronali è una cosa che mi affascina molto. Alcune cose sono state cancellate dal tempo, una su tutte l’artigianalità: la Disney “padronale”, quella nata in un fienile, era un posto di grande energia ed entusiasmo. I disegnatori si sentivano dei pionieri, chi gestiva le macchine da presa spesso le modificava e reinventava in base alle esigenze. Il lavoro lì era davvero qualcosa di incredibilmente fluido, da inventare. Quando l’azienda è diventata una società per azioni e poi, con la morte di Walt, questo è dovuto cambiare: l’azienda è stata strutturata e l’artigianalità si è un po’ persa. Quello che non si è perso, però, è un certo know how che è nato con Walt, una sua attenzione particolare per la creazione di un certo tipo di personaggi e di storie. È qualcosa di difficile da spiegare, ma lo si percepisce stando lì: dai disegnatori (io ero lì per quello) viene preteso un approccio basato non sulla bellezza dei disegni ma sul movimento, sull’energia, sull’espressività: non c’è una tazza Disney raffigurante un Topolino in semplice posizione di riposo, perché Topolino è le storie che racconta. Un’altra cosa che forse si è persa è che finchè Walt era in vita chi comandava era il reparto artistico, Walt aveva fatto costruire gli studi Disney mettendo ai piani superiori la produzione (i disegnatori) e al piano di sotto il management, il reparto legale e il marketing. Follia a pensarci oggi, ma così ragionava Walt.