Intervista a Umberto Lenzi

Intervista al regista di Il Paese del sesso selvaggio, Mangiati vivi! e Cannibal Ferox
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Il primo film cannibalico che lei ha diretto, anche se può considerarsi un esperimento atipico rispetto ai canovacci sviluppati in seguito, risale al 1972 e si intitola Il paese del sesso selvaggio…

Per la verità, l’idea di fare questo film venne ai produttori Rossi e Assonitis e si ispirava a racconti di giungla e di riti tribali che erano stati suggeriti dalla scrittrice Emmanuelle Arsan. Lei aveva dato l’input a questo film perché, essendo di origini tailandesi, aveva raccontato di questi riti sessuali che venivano consumati nella giungla. I produttori fecero così scrivere la sceneggiatura a Francesco Barilli e a un professore universitario che si chiamava Massimo D’Avack. In realtà, quando mi presentarono la sceneggiatura, mi accorsi che si trattava solo di una traccia che si limitava a dire: “qui ci va il rito del taglio della lingua, qui ci va il ‘rito del fiore’…” e cose così. Più che una sceneggiatura, era una scaletta che è poi stata rifinita sul posto mano a mano che si girava.

L’attrice protagonista Me Me Lai, che ha fatto anche un film con Lars Von Trier, come l’avete scelta?

Era una ragazza euroasiatica che penso avesse anche origini inglesi. Era molto bella e viveva a Londra. Fu molto brava e il film ebbe successo in tutto il mondo dove venne venduto come Mondo Cannibale.

Ma risulta sia circolato come The Man From The Deep River…

Quello, in realtà, era il titolo originale che stava sulla sceneggiatura e la Medusa, quando lo distribuì in Italia, lo rovinò rititolandolo Il paese del sesso selvaggio. Ma chi te lo va a vedere un film con un titolo così? E infatti in Italia fu un tonfo. Se invece l’avessero chiamato L’uomo dai fiumi profondi che occhieggiava a L’uomo chiamato cavallo, probabilmente avrebbe avuto un esito diverso.

In effetti c’erano delle scene che ricordavano un po’ il film di Elliot Silverstein. La scena in cui Ivan Rassimov viene torturato con le frecce…

Sì, è vero. Comunque, tornando ai titoli, sicuramente il film è uscito in Germania come Mondo Cannibale; mentre in America è uscito prima come Il paese del sesso selvaggio, poi fu ritirato dalla censura e riuscì con il titolo Sacrifice! Quando ci fu questa riedizione io mi trovavo a Los Angeles ed ebbi una recensione di quasi una pagina su un giornale che ne parlava molto bene. Tornato a Roma la feci vedere al produttore Giorgio Rossi che non me la restituì più. Sai, allora le fotocopie erano una cosa un po’ complicata. Comunque, visto il successo di questo film, la produzione firmò con vari distributori esteri per un seguito. Purtroppo io non potevo farlo perché ero sotto contratto con Martino e dovevo girare Milano odia. Non potevo certo lasciare la Dania per una produzione minore e avrei accettato solo a determinate condizioni economiche che a Rossi non andavano bene. In realtà, la richiesta l’avevo fatta in virtù del successo che il film aveva ottenuto in tutto il mondo e quindi mi sembrava più che legittima. Rossi e Assonitis invece la recepirono in senso negativo e il film lo fecero fare a Ruggero Deodato con il titolo Ultimo mondo cannibale. Veramente ci fu anche un altro problema, perché loro le prevendite le avevano fatte con il mio nome, quello di Ivan Rassimov e quello di Me Me Lai. Quindi furono costretti a riprendere i due attori, anche se a Rassimov non gli fecero più fare la parte del protagonista ma quello dell’antagonista, perché se no avrebbero dovuto sostituire più di una persona e le vendite all’estero sarebbero sfumate.

Nel film di Deodato gli aspetti gore e cannibalici sono stati sensibilmente ampliati rispetto a quelli mostrati in Il paese del sesso selvaggio…

Sì, perché il successo del mio film non dipendeva certo dal fatto che lui si sposava un’indigena e viveva una storia d’amore nella giungla. L’interesse che si era generato si basava tutto su quelle due sequenze in cui i cannibali tagliavano la lingua a uno e si mangiavano il cadavere della donna. A proposito, mi viene in mente un aneddoto. Non so se sai che quella parte l’ho fatta recitare a una prostituta. Stavamo in mezzo alla giungla, non avevamo comparse e così andai in una di queste case dove fanno massaggi… insomma,  un casino! Trovai una ragazza che era disposta a farla e la ingaggiai. Una volta sul set, la giovane era molto turbata, perché, nonostante ci sia molta prostituzione in Thailandia, le orientali non sono delle donne sfacciate e se anche una fa la prostituta, girare una scena di quel tipo era difficile. Mi ricordo che scoppiò a piangere e dovetti consolarla perché non riusciva più a tornare in sé.

Le location erano tutte tailandesi?

Sì. Le scene con i cannibali le abbiamo girate in un villaggio molto fuori Bangkok. Pensa che l’albergo dove stavamo aveva come gabinetto solo un buco per terra da dove fuoriuscivano centinaia e centinaia di insetti. Una cosa penosa; anche perché i produttori se ne stavano a Bangkok a spassarsela e io ero lì da solo con Fantasia e i macchinisti. Ogni tanto da Bangkok ci arrivano delle casse con i viveri, compresa carta igienica e una bottiglia di vino che avevo espressamente richiesto perché, caro Manlio, devi sapere che io pasteggio solo con buon vino Chianti e in quell’occasione mi mandarono una bottiglia di Matheus che il macchinista ruppe cercando di togliere il tappo. Non ti dico la fatica. Quindi, quello che voglio dire è questo: se un regista, nonostante le mille difficoltà, ti dà un prodotto che ti fa guadagnare miliardi in tutto il mondo, non è giusto che la volta dopo il produttore gli offra la stessa cifra che, diciamoci la verità, era proprio di quattro lire. Non c’era assolutamente rispetto per il lavoro del regista. I produttori erano convinti che il successo del film dipendesse solo dalla loro idea.

Un po’ quello che le è successo con La casa 3, l’ultimo suo hit al cinema del 1988. Nonostante gli alti incassi, la produzione pensò bene di affidare La casa 4 a Fabrizio Laurenti…

Sì, pensa che subito dopo La casa 3 presentai ai produttori il soggetto per La casa 4, una storia alla Psycho con una donna che usciva dal carcere e andava in una villa dove anni prima si erano consumati dei delitti sanguinari, ma questi non la presero neanche in considerazione. Mi dissero, con il pugnale nascosto dietro la spalliera della sedia, che ormai questi film non andavano più e non avevano nessuna intenzione di fare un seguito. In realtà, non solo fecero una Casa 4, ma anche una Casa 5, che fecero fare a Claudio Fragasso, perché se no Fabrizio Laurenti gli costava qualche soldino in più. Il problema è che i produttori in Italia ti ripetevano sempre: «Per me sei come un fratello, noi lavoreremo sempre insieme» e intanto ti davano il bicchiere con il cianuro… e nel Paese del sesso selvaggio il vero produttore esecutivo ero io, perché il delegato della produzione se ne stava a Bangkok a spedire la pellicola a Roma.

Otto anni dopo Il paese del sesso selvaggio, lei dirige altri due film sui cannibali: Mangiati vivi! e Cannibal Ferox. Siamo all’inizio degli anni Ottanta e Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato, tra polemiche e censure, aveva creato un evento…

Devo dire la verità, Cannibal Holocaust non l’ho visto. Avevo saputo del film di Deodato perché Roma era tappezzata di questi manifesti con su una donna impalata, ma non ero andato al cinema a vederlo. Avevo visto invece Ultimo mondo cannibale perché Giorgio Rossi mi aveva invitato a una proiezione privata e io ero incuriosito, perché in fondo era un film legato al mio. Di fare un nuovo film sui cannibali mi venne proposto da Martino e Loy in virtù del fatto che avevo diretto Il paese del sesso selvaggio. Il primo dei due film che feci fu Mangiati vivi!, che, come Il paese del sesso selvaggio, aveva una sola scena di cannibalismo nel finale, perché il tema della storia era incentrato sulla famosa setta del Reverendo Jones. Questo poi si ricollega al fatto che per i miei film mi sono sempre basato su eventi di cronaca e su episodi eclatanti legati alla società. Cannibal Ferox fu fatto subito dopo Mangiati vivi! perché quando i distributori tedeschi vennero in Italia dissero che volevano un altro film sui cannibali diretto da me (che avevo fatto Mondo Cannibale) con ancora più gore e più sangue. Mi ricordo che mi trovavo sulla spiaggia, a Baia San Nicola, e vidi passare di fronte a me, con i pantaloni arrotolati e un fazzoletto bianco sulla testa, il direttore di produzione di Mangiati vivi!. Gli dissi: «Ma che fai qui?», e lui: «Sto cercando te. Ho girato tutti gli stabilimenti balneari perché ci sono i tedeschi che ti vogliono conoscere e devi assolutamente venire questa sera a una cena a Roma». Andai, mi fecero un sacco di foto e di interviste e mi dissero: «Lei deve partire, massimo entro un mese, a girare un nuovo film sui cannibali». Così nacque Cannibal Ferox, il cui titolo, come Mangiati vivi!, lo inventò Luciano Martino. Il problema è che Martino c’aveva i titoli ma non le storie, tant’è che ho fatto la storia del Reverendo Jones, che con Mangiati vivi! non c’entra niente. Tornai al mare e in una settimana scrissi questa storia che era incentrata sulla questione: «Esistono veramente i cannibali oppure sono solo un’esaltazione dei riti tribali per giustificare il colonialismo?». Questo è il senso del film. Voglio dire, il cannibalismo esiste in certe parti del mondo dove esistono civiltà diverse dalla nostra. Anche nell’antica Grecia c’è stato il momento in cui l’omosessualità e l’incesto facevano parte della cultura e non erano banditi dal costume sociale. Certo, poi il film è stato condito con elementi tipici dell’avventura; ma se tu guardi Cannibal Ferox ti accorgi che i comportamenti dei bianchi che cercano la droga e le gemme fanno talmente soffrire le tribù che sfruttano per speculazioni capitalistiche, che queste poi reagiscono in modo selvaggio e atroce. Questo è il senso. Poi magari è venuto fuori un banalissimo film sui cannibali che, però, ha avuto un successo così eclatante in tutto il mondo che, ancora oggi, mi domando com’è possibile che a New York in un cinema sulla 42esima strada in piena Broadway per vederlo c’era una fila di spettatori di più di duecento metri.

Ma il senso della scena finale del film, in cui la protagonista mostra la sua tesi affermando che il cannibalismo non esiste, cosa sta a significare?

Semplicemente che lei, dopo tutte le atrocità a cui ha assistito, non ha più la forza di affrontare quell’argomento. Forse è una forma di pudore suo o forse ha paura che non le crederebbero o, ancora, forse questa era la dimostrazione che il suo punto di vista iniziale non era del tutto vero e cioè: ha documentato che il cannibalismo in realtà è stata una reazione al comportamento scorretto dei bianchi.

Anche in Mangiati vivi! mi sembra ci sia una critica alla società occidentale…

Sì, li volevo denunciare la follia collettiva dei bianchi, di gente che abbandona la civiltà, il lavoro e la famiglia perché subisce in modo anormale l’influenza di questi pseudo predicatori che ancora oggi imperversano nel mondo. È una cosa che è successa anche in Texas, in quella casa dove sono stati uccisi tutti. Il personaggio del predicatore lo fece molto bene Ivan Rassimov, descrivendo quest’uomo che aveva un misto di esaltazione religiosa e di esasperazione sessuale; era un sadico che mascherava le sue perversioni dietro concetti mistici. La più bella trovata del film, secondo me, era una mia civetteria e cioè, mentre stavano nella giungla a predicare, suonavano la Messa in Requiem di Bach. Creava un’atmosfera stranissima, quasi surreale.

Parliamo della violenza grafica di questi due film. Era dettata solo da logiche produttive o, secondo lei, può essere contestualizzata alla vicenda?

Secondo me l’effetto gore nei miei film era sempre contestualizzato alla storia. Anche per quanto riguarda il sesso ho cercato sempre di mantenermi distante dall’esposizione gratuita. Il personaggio interpretato da Janet Agren, a un certo punto, sotto l’effetto di droghe, viene spogliato e dipinto d’oro. Era una scena che mi serviva per amplificare l’aspetto onirico della vicenda. La scena della deflorazione con il fallo era un rito giustificato dalla follia pagano/cristiana del predicatore. La storia stessa, che prendeva spunto dalla realtà, richiedeva una tipo di narrazione molto forte. Inoltre un’altra cosa che mi piace del film è questo contrasto con la partenza a New York e il caldo tropicale della giungla. Mangiati vivi! parte molto bene e forse si perde un po’ nell’eccessiva descrizione di certi riti. Comunque il successo del film dimostra una sua certa validità; anche se tra i due quello che ha sbancato maggiormente è stato Cannibal Ferox e il segreto del suo successo sta proprio nel fatto che era molto gore. È stato proibito in trentuno Paesi.

Ma l’idea di appendere Zora Kerova per le tette?

Fu un’idea del produttore. Non sono uno che di solito fa queste cose; io mi trovo bene con i carri armati, i tedeschi, gli aerei.

Paola Senatore ebbe qualche problema a girare la scena in cui viene sodomizzata dal cannibale?

Non ebbe nessun problema. I problemi li ebbe, invece, il cannibale perché aveva dei problemi religiosi… era buddista e non riusciva a girare la scena.

Parliamo allora della spinosa questione, che ha visto coinvolti sia lei che Deodato, della violenza sugli animali…

Non ho capito come si possa fare polemica quando si tengono centomila galline rinchiuse in quattro metri con gli occhi bendati e le luci artificiali per farle crescere ruspanti e pronte per essere mangiate dopo sofferenze immani. Cioè, la violenza sugli animali c’è sempre stata. Hai mai visto uccidere un maiale? Vai a vederti Novecento di Bertolucci e poi mi dici. Lasciamo perdere se nel mio film qualche animale, che poi sarebbe morto in modo cruento lo stesso, è stato ucciso. Tra l’altro, molte scene di quel tipo le ho prese già fatte da documentari, mentre altri erano dei semplici trucchi. Pensa che nella famosa scena di Cannibal Ferox dove l’anaconda si mangia il topo muschiato, alla fine delle riprese ho salvato la vita a quel topolino perché, quando se lo stava per ingoiare tutto, ho preteso che gli venisse tirato fuori. Non è stato ucciso quell’animaletto. In Il paese del sesso selvaggio la lotta tra il serpente e la mangusta era vera, ma quella era una cosa che facevano tutti i giorni pagando tre lire per intrattenere i turisti sulle pubbliche piazze. Sai, se si fanno delle storie per tagliare la testa a una testuggine che poi finisce comunque in padella per fare il brodo, allora bisognerebbe prendersela con tutti i ristoranti di Parigi.

Per quanto invece riguarda la polemica della paternità del genere cannibalico, invece?

È una polemica squallida che non so chi ha fomentato. Deodato io lo conosco a distanza… ci siamo incontrati una volta a casa di uno sceneggiatore.

Eppure Deodato la accusa di aver usato delle scene tratte da Ultimo mondo cannibale in Mangiati vivi!…

Questa è una cattiveria. Ma come!, io ho lanciato Me Me Lai nel genere e lui se l’è ritrovata protagonista del suo film per merito mio; ora, se in Mangiati vivi! devo fare vedere per qualche secondo la testa di Me Me Lai che brucia e il produttore Giorgio Rossi, con cui avevano un rapporto di amicizia, è disposto a fornirmi la scena, perché mai non avrei dovuto farlo? Stiamo parlando di qualche secondo, di un metro e mezzo di pellicola. Facevamo lo stesso con gli inserti nei film di guerra. Voglio chiudere comunque per sempre questa stupida polemica. Tra l’altro, alcuni cinefili mi hanno rimproverato un’altra sequenza che secondo loro avrei recuperato da Il paese del sesso selvaggio e si tratta della scena in cui Me Me Lai viene sottoposta al rito della vedova, secondo il quale una donna che ha perso il marito viene violentata sulle sue ceneri dagli altri maschi della famiglia. Questa scena l’avevo girata ne Il paese del sesso selvaggio e alcuni mi accusano di avere inserito lo stesso materiale anche in Mangiati vivi. Non è vero e voglio chiarirlo una volta per tutte: ho rigirato la stessa scena in un contesto diverso ben otto anni dopo e se guardassero bene i film si accorgerebbero che sono location diverse.

Come è stato rincontrare Me Me Lai otto anni dopo?

Si era rifatta il seno e infatti nella scena del “rito della vedova” si vede chiaramente. Si era sposata e aveva avuto due bambini. A parte il seno, non era cambiata per niente.

Oggi lei rivaluta Cannibal Ferox, ma fino a qualche anno fa non ne voleva nemmeno parlare…

Sì, perché a un autore come me che ha fatto Il grande attacco e Milano odia, spiace essere ricordato per un film che al di là di tutto è secondario nella mia filmografia. È un po’ quello che è successo a Mascagni con La cavalleria rusticana che ha composto quando aveva ventisei anni e poi ha fatto altre quindici opere che nessuno si ricorda. In quell’occasione Mascagni disse: «È stata la mia più grande disgrazia che la mia prima opera fosse il mio capolavoro. Mi hanno incoronato re ancora prima di diventarlo». Vedi, io mi aspettavo che Attentato ai tre grandi mi portasse chissà quale successo e invece è un film che non ha visto nessuno, mentre continuano ad arrivarmi lettere di complimenti per Cannibal Ferox. Questo un po’ mi rode.

Tra l’altro mi sembra di cogliere una certa svogliatezza da parte sua in questi due film. Le si era spento l’entusiasmo della stagione precedente dei polizieschi?

In un certo senso sì, non avevo più lo stesso “jump”. Poi anche le condizioni in cui giravamo… gli scarafaggi che trovavamo nei piatti a cena. Ma dimmi tu con quale input la mattina uno va a girare? Non c’erano strade, né ospedali e il rischio di infezioni era altissimo. È ovvio che cerchi di stringere perché non ne puoi più. Ho fatto certe cose che sono andate a buon fine solo grazie alla mia bravura. In Mangiati vivi, ad esempio, avevamo due villaggi. Uno me l’aveva costruito il mio amico Giuseppe Bassan, che oggi non è più tra noi, in riva al fiume e appena aveva finito con le costruzioni è arrivato un temporale, il fiume è straripato e l’ha portato via. Bassan mi disse: «E adesso come faccio? Per ricostruire tutto ci vogliono almeno altri dieci giorni…». Allora mi venne un’idea: di notte ci siamo messi a fare uno schizzo e abbiamo trasformato in due giorni il primo villaggio in uno nuovo. Su quei film il produttore mi diede, oltre alla paga, anche un otto per cento sulle vendite estere una volta rientrati del minimo garantito. Sai in quanti giorni sono rientrati? In meno di un mese e io per cinque anni ho continuato a prendere soldi. Questo vuol dire che, nonostante le difficoltà, avevo fatto un buon lavoro.

Dove avete girato Mangiati vivi!?

Nello Sri Lanka a Kandy, nel centro dell’isola, che era l’antica capitale. Un posto meraviglioso di cui serbo bellissimi ricordi. Naturalmente l’Amazzonia di Cannibal Ferox ci permetteva di utilizzare meglio i cannibali, perché le comparse che abbiamo usato non mangiavano certo carne umana, ma per il resto erano ridotti proprio come i selvaggi che abbiamo rappresentato; mentre in Mangiati vivi!, con la storia della setta e il fatto che i cannibali erano marginali, potevamo permetterci quel tipo di location. Anche lì, però, c’era il pericolo di certi animali velenosi: mentre giravamo una scena al giardino zoologico una ragazza è morta a cento metri dal nostro set perché morsa da un cobra. Comunque il posto è meraviglioso e la comunità buddista è di una dolcezza infinita. A Leticia, invece, solo i cannibali potevamo trovare; infatti non ti dico la fatica per assoldare le comparse; intanto, la parte di quello che affitta la jeep ai tre ragazzi l’ha interpretata il nostro direttore della fotografia (Giovanni Bergamini, ndr), quello che fa il numero con gli animali era un tedesco intrallazzone del posto e gli altri erano tutti indios.

Di Robert Kerman, star del cinema a luci rosse americano accidentalmente adottato dal filone cannibalico, che cosa mi può dire?

Che fosse un attore di film hard l’ho saputo solo dopo e fu una cosa che mi diede molto fastidio perché tutte le critiche di Mangiati vivi! hanno riportato questa notizia. Quando lessi per la prima volta che nel mio film aveva recitato questo Richard Bolla (pseudonimo di Kerman, ndr), all’inizio pensavo addirittura che si trattasse di uno che interpretava un poliziotto nelle scene iniziali a New York. Mai e poi mai avrei pensato che si trattasse di Kerman. Comunque la colpa non fu mia, ma di Deodato che l’aveva utilizzato in un suo film precedente, e del mio direttore di produzione che me lo presentò dicendo che era un attore americano che aveva già lavorato in Italia. Un giorno che Kerman, andando in Israele, si fermò a Roma me lo presentarono e pensai che aveva proprio la faccia giusta; ma ignoravo completamente il suo passato.

E Giovanni Lombardo Radice, figlio della massima cultura italiana, votato alla causa dell’exploitation?

Giovanni è una persona stupenda, molto colta e raffinata. Lui, sai, viene da una famiglia e da una cultura di primo piano: suo padre è un famosissimo professore universitario, suo nonno, Arturo Jemolo, è il più grande laico/cattolico della filosofia italiana, suo zio è Pietro Ingrao… Mi sono trovato benissimo con lui e nonostante abbia fatto un film solo, Giovanni ha parlato molto bene di me e della nostra esperienza sul libro della Faldini e Fofi, Il cinema italiano d’oggi; mentre mi è spiaciuto leggere quello che ha detto Ivan Rassimov nell’intervista che gli hai fatto su Nocturno, dove mi fa apparire come un pazzo. Mi è dispiaciuto perché con Ivan, con cui ho fatto tre o quattro film, c’era proprio un rapporto di amicizia, veniva sempre a casa mia a mangiare e ci si sentiva spesso. Ivan è cambiato dal momento in cui ha cominciato a fare i fotoromanzi…