Intervista a Stefano Sollima

Lo abbiamo incontrato a Roma
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Abbiamo incontrato a Roma Stefano Sollima, talentuoso regista che sta portando avanti una vera rivoluzione, quasi terroristica, all’interno della calma placida della televisione italiana. Le varie fiction di Mediaset e Rai, grazie a lui, si tramutano in caleidoscopi dove la violenza la fa da padrona e i personaggi non sono modelli da imitare ma bestie feroci e umanissime, capaci di guardare con affetto la propria moglie e poi prendere a sprangate una ragazza indifesa. È la nuova tv di Sky che guarda al modello americano, alle serie via cavo, e che tenta una rinascita dei nostri generi attraverso il piccolo schermo. In questa intervista a Stefano Sollima il regista si svela a Nocturno, la sua “rivista di cinema preferita”.

Quali sono i tuoi amori cinematografici?

Il mio primo amore è stato l’horror. Da ragazzino facevo le maratone di film del terrore, arrivando a vederne, al cinema parrocchiale, anche uno al giorno d’estate. I miei primi corti erano horror metafisici, ad esempio Zippo, un’opera piena di effetti speciali, una specie di cartoon macabro dove un uomo disseminato di cerniere si trova all’interno del suo corpo un topo.

Come sei passato, quindi, dall’horror al poliziesco?

Beh, in Italia se vuoi fare horror da professionista, ti troncano sul nascere le gambe, anche perché i generi di norma non si fanno. L’unico genere che si frequenta è la commedia e a me la commedia comunque non piace. Ho trovato quindi la strada nel poliziesco noir, ed è grazie anche al successo di serie tv come Romanzo criminale che, se ora parli di prodotti di genere, non ti guardano più tanto male. I generi purtroppo, soprattutto l’horror o il poliziesco, erano considerati incompatibili con la tv, penalizzati già sul nascere dalla censura della tv di Stato o di Mediaset che non vuole sangue o nudi. Tutto è diventato fattibile grazie all’avvento di Sky, dove si può finalmente usare un linguaggio cinematografico, metterci la violenza e non hai un problema morale sui personaggi che metti in scena. Lo stesso è accaduto in America con la tv via cavo.

Penso a “Ciro l’immortale” di Gomorra, un personaggio assolutamente fuori dagli schemi della tv, crudele, spietato però empatico col pubblico, almeno fino alla puntata dove arriva a torturare una ragazzina. Questa scelta è stata dettata dal desiderio di non cadere nella fascinazione del male di un personaggio comunque negativo?

Sì e no. Questa scelta era già stata pensata all’inizio, prima che i giornali ci attaccassero preventivamente con frasi come “Attenzione a esaltare la bellezza del male”, a me, francamente, veniva da sorridere perché sapevo quello che avevamo girato e che sarebbe stato trasmesso. Io pensavo: «Non è così. Mettetevi seduti, tranquilli, guardatevi la serie e vedrete che niente è come avete pensato». La mia ambizione era quella di creare una serie che avesse un contenuto così forte da non essere più entertainment. Anche perché Gomorra non è una serie da vedere distrattamente: deve essere digerita episodio dopo episodio, con i personaggi che non restano statici ma, come nella vita, si evolvono, crescono, mutano.

Voi vi aspettavate tutto questo clamore con Gomorra, considerato anche che è una serie penalizzata dall’essere trasmessa coi sottotitoli?

Non siamo partiti con l’idea di scrivere una seconda serie, la cosa ha preso forma quando abbiamo capito l’interesse che si stava creando intorno al nostro telefilm. Io poi sono un grande cultore di serie tv americane, fin dai tempi dei primi prodotti HBO. Ora una serie che mi sta letteralmente facendo impazzire è True detective: rimette in gioco un genere inflazionato come il buddy cop, con due poliziotti agli antipodi caratteriali che danno la caccia a un serial killer. True detective ripropone un prodotto stile anni 70, dove potevi parlare di altro anche affrontando il poliziesco, una storia umana bellissima dove il plot principale resta sullo sfondo. Anche in questo caso si parla di un modo di fare tv assolutamente innovativo, affrontando un genere snobbato dal cinema e proponendolo alle grandi masse.

Ci parli di uno dei tuoi primi lavori televisivi, una fiction per Mediaset dal titolo Ho sposato un calciatore, del 2005?

Il mio lavoro è una professione dove, a volte, riesci a fare quello che vuoi e altre volte meno. Io ho fatto Un posto al sole e La squadra, due esperienze professionali e umane di altissimo livello, un esercizio formativo importante per la mia carriera, io che venivo dai videoclip e dalla pubblicità, dove il lavoro con gli attori era ancora una cosa abbastanza carente. Ho sposato un calciatore è stata la prima volta in cui mi hanno proposto di fare una prima serata per Canale 5. La serie inglese era molto strana, una storia piena di cose incredibili per la nostra tv: cocaina, nudi, sesso… molto trash, pop, sicuramente interessante. Ovviamente, nella trasposizione ci siamo persi molte cose perché Mediaset non ha voluto spingere come si doveva su quei temi. Era poi una serie che non ho mai capito perché la volessero proporre in prima serata, era un prodotto da seconda serata, come d’altronde veniva trasmessa In Inghilterra. La girai quindi col freno a mano tirato perché il pubblico da prime time si aspettava un prodotto più blando. È questo il limite della tv generalista, l’avere un pubblico così enorme da accontentare tutti senza scontentare nessuno, una vera impresa.

Come sono i tuoi ricordi a proposito della Squadra?
Girare La squadra è stato davvero bellissimo, forse più di Un posto al sole. Lì facevi una palestra fantastica perché giravi in esterno, dovevi muovere la telecamera e nel contempo non rendere gli attori troppo ingessati, un’esperienza quasi cinematografica. Poi ho girato degli episodi che erano davvero spettacolari, una figata assurda. Mentre ero agli inizi della carriera e andavo in giro a proporre prodotti che nessuno avrebbe mai considerato, mi sono fermato, anche pensando alle serie tv estere, e mi sono detto «La televisione è il futuro» ed è stato con questo approccio che ho girato i miei primi lavori, con l’entusiasmo e la voglia di rompere gli schemi.

Vedi un ritorno dei generi, quindi, con la Tv?

Non vedo perché i generi non dovrebbero tornare, in tv o al cinema. Siamo l’unico Paese che produce alla fine solo film d’autore o commedie. Guarda la Spagna o la Francia: loro fanno horror, polizieschi, anche con successo.
Ed è bizzarro, se ci pensi, perché se fossimo stati giovani produttori negli anni 70 con un budget di 20 milioni di lire, ci saremmo buttati o sul porno o sul film del terrore, sicuramente non su un film d’essai.

Nel girare il tuo Romanzo criminale quanto è stata forte l’influenza dell’omonimo film di Michele Placido?

Sicuramente c’è stata, ma abbiamo cercato di rielaborare la materia e riflettere sulla strada da prendere, diversa da quella del bellissimo film di Placido. Conta che stavamo girando una serie tratta da un libro di successo, dal quale era già stato tratto un film di successo. Noi abbiamo messo in scena una banda più giovane di quella vista al cinema, con un cast di sconosciuti che ha spiazzato pubblico e stampa di settore. Senza contare l’arco narrativo da affrontare che era estremamente più lungo di quello di Placido. Quando abbiamo fatto la conferenza stampa la prima volta i giornalisti ci guardavano e pensavano: «Ma chi sono questi qui?». Conta che comunque in tv hai già il pubblico assicurato rispetto al cinema quindi puoi sbizzarrirti di più anche nella scelta del cast, facendo lavorare anche attori esordienti, con il vantaggio che davanti a un volto non conosciuto il pubblico non sa cosa aspettarsi da quel personaggio. Pensiamo anche a Marco Amore che interpreta Ciro in Gomorra, un attore eccezionale, che però non aveva avuto ancora l’occasione di esplodere in un ruolo tale da conquistare il pubblico. Nei giovanissimi, fortunatamente, c’è una bella generazione di ottimi attori che aspettano solo di avere la loro occasione. A Napoli, quando abbiamo fatto il cast per Gomorra, ci siamo sorpresi della bravura dei candidati. La forza di Gomorra è stata poi di essere girato in luoghi veri, non in studio; una ricostruzione, per esempio, a Cinecittà, avrebbe ridotto l’impatto spettacolare della serie. Io cerco di fare scomparire la telecamera e concentrarmi soprattutto sull’attore, sulla sua recitazione, così credo il pubblico si possa immedesimare meglio nella storia, che assume una connotazione quasi documentaristica.

I tuoi prossimi impegni?

Un film per il cinema, prodotto da Cattleya, Suburra, una storia molto forte e interessante, tratto da un libro di Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo. Suburra è un thriller, poliziesco, gangster movie ambientato a Roma, un film corale: c’è un politico, un gangster di strada e un vescovo che si incontreranno nell’arco di una settimana. Sarà un film davvero interessante.

Romanzo criminale l’hai girato completamente tu. Come mai in Gomorra, invece, la scelta di farti affiancare da due altri registi nei vari episodi?

Perché Gomorra si prestava di più. Se leggi il libro di Saviano è un caleidoscopio, un mondo, mille frammenti, mille piccole storie. L’idea era quella di cambiare il punto di vista in ogni episodio, pur mantenendo io la supervisione della serie. Siamo arrivati, per esempio, a un certo punto – quando in alcune puntate il centro della narrazione era Donna Imma – a pensare che sarebbe stato bello farle girare a una donna, qualcuno che potesse entrare nella psicologia di un personaggio femminile in maniera diversa dal mio che sono un uomo. Credo che questo restituisse la complessità del libro di Roberto. Le puntate dirette da Francesca Comencini con protagonista Imma sono per me davvero molto belle, differenti da come le avrei dirette sicuramente io. Sai, in tv è più semplice dare tutta la serie a un solo nome, perché quando in ballo ci sono più registi il lavoro aumenta, bisogna saperli coordinare e gestire, i tempi di produzione lievitano. È un modello nuovo che secondo me vale la pena sperimentare, anche se più costoso e laborioso, però più interessante.

Roberto Saviano quanto ha partecipato in fase di sceneggiatura a Gomorra la serie?

Roberto ha fatto una supervisione dell’opera, era alla fine sempre presente. Noi siamo partiti dal libro e abbiamo ricostruito da quello una struttura narrativa solida che nel libro non c’era. Saviano è stato un ispiratore con il quale mi confrontavo per non fare errori.