Intervista a Pupi Avati

Il regista ci parla del suo ultimo horror: Il Signor Diavolo
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Stamane mi sono svegliata, due domeniche dopo, con un leggero mal di testa, dopo una settimana un po’ complicata. Ieri mi ero comperata, per gratificarmi, un bellissimo vestito, ma troppo scollato e cosi avevo cominciato a pensare che Pupi Avati non l’avrebbe trovato elegante… Perché Avati? Perché due sabati fa, l’ultimo giorno di riprese di Il Signor Diavolo, il più recente film di Avati, un horror, ero stata sul set per intervistarlo e, in omaggio a questo mito, mi ero messa un vestito rosa delicato. Pupi mi aveva dato la mano e mi aveva detto: “Come è elegante!”; e io “È un occasione…”. Poi si era appoggiato, con delicatezza, il dorso della mia mano sul viso, quasi a rubarmi una carezza. È stato come se durante quel fuggevole contatto si fosse trasmessa la mia ammirazione per lui e lo potevamo percepire solo noi. Rivedo e risento Pupi che dice ai suoi aiuti con tono deciso, ma di chi non ha bisogno di alzare la voce: “Datele un cubo.” Così mi arriva ‘sta cassetta sulla quale mi siedo a pochi centimetri dal Maestro, mentre azzardo un: “Io mi chiamo Eugenia Neri e non sono parente di Francesca Neri, ma di Carla Boni…”; “Chi è Carla Boni?”; “Quella di Mambo Italiano”; “Ah…”, esclama lui: sembrava incuriosito…

Maestro Avati, lei ha scritto prima il libro di Il Signor Diavolo, poi è partito con le riprese: perché questa scelta?

Il plot del romanzo, tutti quelli che l’avevano letto mi dicevano che era molto cinematografico, dava l’idea di una storia piena di tensione, quindi ideale da raccontare anche attraverso una sintesi cinematografica, sebbene sia evidente che un romanzo dice sempre molto di più di quello che dice un film. Il Signor Diavolo rappresenta una sorta di ritorno a un genere che io ho già frequentato. Ma non soltanto un genere, addirittura un ambito geografico, che è quello di Comacchio, delle Valli del Delta del Po… luoghi così strani, così suggestivi dove l’acqua si confonde spesso con la terra. E dove la nebbia domina, trasformandoli anche in luoghi di paura. In Il Signor Diavolo siamo negli anni Cinquanta: persistente e fortissimo è l’influsso della favola contadina. Sia la religiosità pre-conciliare sia la favola contadina, entrambe orrorifiche e spaventevoli, sono due momenti, due elementi della narrazione del fantastico, che in Italia si è andato sbiadendo. Negli anni Settanta e Ottanta ancora esistevano dei miei colleghi che frequentavano questo genere, con dei risultati, non soltanto a livello nazionale ma anche internazionale, di una certa qualità. Poi, improvvisamente, da un certo punto in avanti, il cinema italiano ha come abdicato e alzato le braccia, rinunciando a raccontare il fantasy. Hanno prevalso il racconto realistico, la piccola commedia, il piccolo dramma famigliare. Il cinema che si fa oggi è molto intimistico, naturalistico, realistico, mentre il cinema con cui siamo stati cresciuti ed educati noi, è quello d’oltre Oceano, che ha più successo e che pratica tutti generi, dal fantastico, allo storico, al western, al musical… Pensi al successo avuto da La La Land, senza nessun tipo di imbarazzo. Qui, invece, si ci vergogna di fare ciò che è lontano dalla realtà. L’Italia è diventato un Paese che ha paura della fantasia, della creatività.

Alla scrittura della sceneggiatura hanno partecipato anche suo fratello Antonio e suo figlio Tommaso?

Si. Sempre sulla base del romanzo, che, comunque, è stato un po’ la Bibbia della sceneggiatura, la traccia sulla quale si fonda la storia. È evidente che la sceneggiatura è molto più sintetica, più essenziale e meno prolissa, ha meno dettagli e informazioni di quanto non ne abbia il libro, che cerca di raccontare anche quella che era una realtà sociale negli anni Cinquanta. Ecco, tutto questo aspetto nel film non l’ho considerato; il fatto che lui fosse così intriso di ideologia democristiana e vi fosse del don camillismo nella storia d’amore con questa donna che dopo comincia a prostituirsi. Tutte queste cose che esulavano dal plot più cinematografico le ho escluse.

L’horror o comunque il nero tornano puntualmente e periodicamente nella sua filmografia, sempre con radici che affondano nella cultura rurale e contadina. Anche Il Signor Diavolo sta in questo solco, come L’arcano incantatore?

Soprattutto con il senso del “sacro”. Non sarà un caso che sia in La casa dalle finestre che ridono, sia in Zeder, sia in L’arcano incantatore sia in Il nascondiglio, ci siano sempre dei religiosi, ci sia sempre un mondo che gravita attorno a quella visione della religiosità pre-conciliare in cui, veramente, il parroco, il sacerdote, la figura religiosa era vista come qualcosa che stava tra la terra e il cielo, con dei poteri misteriosi, specie agli occhi di un bambino.

Il romanzo è ricco di frasi da appuntare, a volte spiritose, a volte commoventi: anche per la sceneggiatura avete mantenuto questa altalenanza di sentimenti controversi, ma nello stesso tempo indispensabili l’un l’altro?

Non cosi tanto, perché la scrittura cinematografica è fatta più di eventi che di riflessioni. La scrittura letteraria, quella, appunto, di un romanzo, permette di fare anche qualche considerazione personale, auto-ironica.

Quale differenza esiste tra l’emozione data tramite un libro e tramite un film?

Un libro ti da la possibilità di spaziare con la fantasia molto di più, la scrittura ti permette d’inventare, d’immaginare, di soffermarti a raccontare e descrivere un infinità di situazioni, senza problemi né di costi né di tempi. Invece, con un film, devi rimanere all’interno di un budget, ti devi misurare con questo. Quindi, la mia immaginazione è grande quanto è grande il mio budget.

 Un altro tema ricorrente nei suoi film neri, pensiamo a Zeder, è il ritorno dalla morte. Anche nel Signor Diavolo questa idea è non solo presente, ma sta alla base del racconto…

Sì, io credo che ogni essere umano che proviene, come me, dalla cultura di quel mondo, e che, anagraficamente, è nato in quegli anni in cui la cultura contadina e la religiosità erano molto forti, abbia in sé la convinzione che esista un pertugio, un passaggio, una sorta di andata e ritorno possibili tra il mondo dei vivi e quello dei morti. La mamma diceva ai bambini: “Fate i buoni, se no la nonna viene a tirarvi i piedi!”. È la promessa. La promessa della cultura contadina che esiste un dopo. Anche della cultura cattolica. E questa è la cosa più affascinante, anche la più inverosimile… e forse anche la più bella.

Dal Signor Diavolo si evince la sua convinzione che il male assoluto esista: come ha cercato di tradurre questo in immagini?

Il male assoluto io credo sia dentro ognuno di noi: se esiste il bene assoluto, esiste anche il male assoluto, cioè qualcosa che è il suo esatto contrario. Mi accorgo io stesso delle contraddizioni dentro di me. Ho comportamenti altruistici e generosi, rivolti agli altri, poi però, a volte, mi scopro a gioire per le cadute a livello professionale di miei colleghi: è qualcosa di malefico. Le invidie sono delle tentazioni, secondo me connaturate all’essere umano. I Santi, quando si dicono tali, passano le loro notti a frustarsi, a flagellarsi perché sono visitati dalle tentazioni.

Molti registi indipendenti alle prime armi si dedicano all’horror. E chi lo ama, lo ama in modo viscerale. Ma, secondo lei, questo genere avrà sempre uno zoccolo duro di estimatori?

Secondo me, l’horror corre il grandissimo rischio di pagare un prezzo troppo elevato alla tecnologie, agli effetti speciali. Questi prodotti sono sempre più strani, molto appiattiti sugli effetti. Mentre i film che ci hanno veramente spaventato nella vita, quei quattro, cinque, dieci film, erano d’atmosfera. Ricordiamo la paura in contesti dove tutto sembrava possibile e non costava niente. Non ricordiamo gli effetti speciali.