Intervista a Helmut Berger

Così bello, così corrotto, così conteso.
Featured Image

A Venezia è appena passato un documentario sulla sua vita, Helmut Berger – actor, diretto da Andreas Horvath, che comincia con le sue terga nude e finisce con un atto masturbatorio compreso di felice conclusione dell’uomo che – si racconta – dopo la morte di Luchino Visconti una volta corse contro Alain Delon gridando: «Sono io la vedova, sono io la vedova!». Così, viene voglia di rispolverare una vecchia (2008) intervista fatta a Berger quando venne a Bergamo a ritirare un premio assegnatogli dal Festival del cinema d’Arte. Berger parla di film di cui non risulta che nessuno gli abbia mai domandato, anche se molti li bolla come lavori di rodaggio che accettava solo perché avrebbero dovuto prepararlo ad affrontare ruoli maggiori.

Sa che Quentin Tarantino ha una venerazione per lei?
No…

Sì! Le ha fatto un grande omaggio in Jackie Brown: Robert De Niro guarda in televisione un film che lei aveva interpreto qui in Italia, un poliziesco, La belva col mitra…
Beh, ma quei film là per me erano solo un rodaggio. Per prepararmi a fare le cose importanti. Li prendevo come un rodaggio, sai, come quando usi le prime volte una macchina. Su quei set ho imparato la tecnica, l’uso delle luci, come si risolvono i problemi…

Ha girato parecchi di questi film popolari…
Ho fatto in tutto una settantina di film…

Molti dei registi coi quali ha lavorato oggi sono nomi di culto: penso a Jess Franco…
Con lui ho girato un film in Francia (I violentatori della notte, ndr), ma non siamo stati molto amici. Ho fatto il mio lavoro e basta.

Massimo Pirri mi ha parlato molto di lei; se lo ricorda?
Come no!? Abbiamo fatto un film insieme dove c’era anche Corinne Clery, Tunnel. Mi sono trovato bene, anche se Pirri, a me, non mi dirigeva. Corinne voleva la parte, l’ha avuta, una chiacchiera e l’altra… ma né lei né io abbiamo mai avuto esperienze con l’eroina: «Come facciamo? Proviamo…». Poi è andata bene e siamo stati contenti, ma quello che voglio dire è che erano film senza preparazione. C’era un copione da studiare, certo… Noi non eravamo come gli attori americani che se devono fare un film sull’eroina, frequentano la gente che si droga.

Il metodo…
Sì. Noi invece abbiamo fatto senza studiare troppo l’eroina, non mi interessava nemmeno… Era più semplice recitare (ride).

Visconti come la dirigeva? Quando eravate sul set, lui com’era? Dicono che fosse un maniaco perfezionista…
Quello certo. Oggi i registi lavorano molto con il monitor, sono tutti concentrati su quello e l’attore viene lasciato a se stesso. Allora invece non esisteva: il regista, personaggio per personaggio, seguiva la recitazione e spiegava quello che voleva. Poi Visconti girava con tre macchine da presa: campo lungo, medio e primi piani. Ed era anche molto difficile per il direttore della fotografia fare luci perfette per il primo piano, per il campo lungo o per il primo piano americano. Nannuzzi e De Sanctis avevano un grande lavoro da fare.

Tutti amano La caduta degli dei. Io sono affezionato a Gruppo di famiglia in un interno
Io invece non lo amo molto…

Per il suo ruolo o in generale?
No, per il mio ruolo e anche per come recitavo. Non ero né molto sicuro né contento di me. Quando lo rivedo mi accorgo di tutti gli sbagli. Non ero molto in forma, credo… Forse la gente sullo schermo non se ne accorge… Poi Luchino a quell’epoca era già malato, era già sulla sedia a rotelle, e non poteva più seguire gli attori come prima. Ci dava indicazioni per iscritto: aveva un’ottima assistente che ci portava i fogli su cui lui scriveva quel che voleva da noi. Però non era più Luchino…

Il primissimo incontro con Luchino Visconti quando è stato?
L’ho conosciuto a Volterra. Studiavo all’università per stranieri di Perugia e ogni tanto facevo delle escursioni. Un week-end dovevo andare a Volterra a visitare il museo etrusco e il lunedì dopo avrei dovuto fare una relazione per l’università. Luchino stava girando un film importante, con Claudia Cardinale e Jean Sorel, se non ricordo male ispirato a D’Annunzio, che si intitolava Vaghe stelle dell’orsa. E fu proprio lì che ci conoscemmo, a Volterra…

Sul set?
Sì, io ero ancora un ragazzino e stavo a guardare come si girava un film, perché sono curioso di natura. Fu Claudia a presentarmi Visconti, che mi fece poi un provino perché aveva in mente di girare Il giovane Torless di Musil. Ma i diritti del romanzo se li fregò per primo Volker Schlondorff, una settimana prima che Visconti chiudesse l’accordo. Dopodiché abbiamo cominciato a lavorare alla Caduta degli dei. Luchino era venuto in vacanza a Kitzbuhel e io gli avevo presentato l’ultimo figlio dei Krupp. E lì gli venne l’idea di girare un film sulla famiglia Krupp, perché aveva conosciuto, e lo affascinava, la storia di questa dinastia decadente… La prima idea del film fu questa.

Qual è stato il primo ruolo sullo schermo di Helmut Berger? Fu nella Ronde?
(ride) No, il primo primo fu Le streghe bugiarde, con Silvana Mangano e Annie Girardot. Ero un cameriere: portavo due valige a Silvana, che lì faceva la diva del cinema, dicevo battute come: «Il tè è servito», non di più. Ma siccome si comincia sempre dalle cose piccole…

I giovani tigri se lo ricorda?
No, il film poco o niente, mi ricordo solo la produttrice, Marina Cicogna, della Euro. Ma anche quello era un film per scherzo, per me non era un film… Torno a dire che queste pellicole le facevo solo come rodaggio, per affrontare poi il cinema pesante, impegnativo…

Tra questi film di rodaggio, come giudica Il ritratto di Dorian Gray di Dallamano?
Io lo trovo orrendo. Non mi piace. So che ha degli estimatori ma non posso farci niente.

Qui a Bergamo, lei girò nel 1971 un giallo con Duccio Tessari…
Ho fatto due film con Tessari e mi è piaciuto lavorarci. Era un uomo simpatico, molto aperto e anche la sua regia era perfetta, sapeva quello che voleva. Il primo era questo giallo (Una farfalla dalle ali insanguinate, ndr). E poi un’altra sceneggiatura tedesca , che adesso non mi ricordo come si chiamava (L’alba dei falsi dei, ndr): avevo detto esplicitamente che per questo film volevo Duccio Tessari, Lorella De Luca. Abbiamo formato questo bel gruppetto e siamo andati in Germania, a Essen. Il film non l’ho mai visto ma la lavorazione è stata ottima.

Parliamo di Tinto Brass…
(fa una faccia)

Non lo ricorda con piacere?
No, no, ho lavorato bene con Tinto, siamo rimasti anche amici. Però lui è un mascalzone… (ride). Ci sono delle scene, in Salon Kitty, dove io guardo nelle celle. Ho fatto solo i miei primi piani ma non sapevo cosa stavo guardando… e poi ho scoperto che Tinto, nei controcampi, ha inserito quelle scene tremende, di quello senza gambe e del nano che fanno l’amore con le ragazze eccetera eccetera… «Cazzo hai fatto?» gli ho detto quando l’ho rivisto (ride). Tinto è un grande tecnico, un grosso uomo di cinema, però quando ho visto il film sono rimasto veramente scioccato…

Lei ha lavorato anche con gli americani…
Ho girato, a Cortina, un bellissimo film con Liz Taylor e Henry Fonda, Il mercoledì delle ceneri. Poi sono andato in America e ho fatto Victory at Entebbe

Interpretava un terrorista, me lo ricordo…
Io poco. Il regista aveva un nome stranissimo, polacco (Marvin J. Chonsky, ndr).

Com’era l’America?
Molto diversa dall’Europa. Qui, nel cinema, erano tutti molto più umani. Là erano macchine. Per esempio, quando giravo il film su Entebbe, io il regista non l’ho quasi mai visto. Se ne stava dentro una scatola di legno, con i suoi schermi, e la regia ti parlava attraverso il microfono. Già cominciava l’uso della tecnica avanzata. In Italia c’era sempre un grande confronto, anche sulla sceneggiatura: incontravi il regista, discutevi, era una dimensione molto umana. Là era solo una macchina. Una macchina per soldi.

Helmut, io so che lei ha scritto una biografia che è uscita in Germania ma non in Italia, Ich Die Autobiographie. Come mai?
L’ho proibito io. È stata scritta da una mia grande amica, una giornalista tedesca che si chiama Holde Heuer. Ma leggendo il libro finito, si vedeva che era stato scritto da una donna, che non osava dire apertamente tutto quello che io le avevo raccontato.

L’ha censurata?
Diciamo che l’ha scritta in un modo da donna, molto morbido. Io non volevo scrivere qualcosa di morbido. Quello che le raccontavo avrei voluto che lo scrivesse tale e quale. Lei invece ci metteva i fiorellini.

Ma lei non si è opposto alla pubblicazione, quando ha visto il risultato finale?
Certo che mi sono opposto, ma non è servito a niente. L’editore, poi, aveva levato lui un sacco di cose: aveva paura di andare incontro a troppi fastidi. Io ho fatto una certa vita, ho incontrato molta gente… ho avuto molti amici, come Niarkos Onassis, dei quali ho conosciuto tutto, e queste cose le avevo raccontate nel libro. Ero andato a ruota libera…

L’ultimo suo film è Iron Cross: di che parla?
È una storia complicata: due fratelli, uno di loro sta nelle SS, mentre l’altro è scappato dai nazisti e si è rifugiato in Polonia, sotto falso nome. Poi subentra anche l’FBI, per catturare l’ex SS che si è nascosto in Argentina… è un intreccio abbastanza tortuoso. Io ho un doppio ruolo, interpreto entrambi i fratelli.

Non ha avuto problemi con un doppio ruolo?
No, è solo una questione di look. Adesso ho tagliato i capelli, ma lì sono anziano, ho i capelli lunghi, mi muovo in modo diverso, vivo tra i libri, sono un personaggio molto intellettuale.

Mi ricorda Le rose di Danzica, che ha girato con la regia di Alberto Bevilacqua…
Sì, c’era anche Franco Nero. Difficile, Bevilacqua, però il film andava bene… Commercialmente non credo, ma era un ottimo film.

Qual è stato il regista più difficile con il quale ha avuto a che fare?
Sicuramente Luchino. E poi, anche De Sica… incredibile.

In una puntata del Maurizio Costanzo Show, di qualche anno fa, lei non parlò benissimo del Giardino dei Finzi Contini
È un film che ha vinto l’Oscar, non ne posso parlare male (ride). De Sica era, oltre che un bravo regista, un grandissimo attore, quindi per noi era difficile… Io dovevo interpretare un personaggio ebreo e lui mi spiegava: «Devi fare così, così, così…»; gli rispondevo: «Ma io non ce la faccio a fare come fai tu, non lo so fare»; «Allora non preoccuparti: fallo nel tuo modo, come sei tu; tu ti chiami Berger, non ti chiami De Sica». Era talmente bravo… Lui era molto buffo: girava sempre nei posti vicino ai quali c’era un casinò. Io ho lavorato anche con Claude Chabrol e lui, invece, gira solo dove ci sono buoni ristoranti (ride). È un mangione Chabrol, ama solo bere e mangiare, gli piace il vino rosso…

Ci sono attori, colleghi, con i quali ha avuto un rapporto di amicizia più stretto?
In generale andavo d’accordo con tutti… più con le attrici che con gli attori.

Le attrici: nel film cult di Tarantino, La belva col mitra, aveva come partner Marisa Mell…
Ma era uno dei miei filmacci (ride). Non mi ricordo niente: Marisa Mell, sì, ma non so nemmeno chi era il regista. Non mi sono mai veramente impegnato quando li giravo.

Com’è stato girare Il Padrino III?
Una fatica enorme. Il dialogo, per me era allucinante. Si parlava solo di banche, di commercio… io non capisco un cazzo di quelle cose (ride). Ho dovuto imparare a memoria queste espressioni… Facevo Calvi in quel film e non conoscendo la sua storia mi ero dovuto documentare… Ma questi dialoghi con queste espressioni bancarie, dio mio… che fatica! Allora mi avevano messo dei fogli attaccati, intorno, con scritte queste parole difficilissime: avevo un foglio qua, un foglio là… perché non riuscivano proprio a entrarmi nella testa.

Helmut, ci sono stati dei progetti che non è riuscito a realizzare?
Avrei molto voluto fare La montagna incantata di Thomas Mann, e poi Proust, ma solo la parte di Les jeunes filles en fleur, insieme con Sodoma e Gomorra. Era tutto pronto, i sopralluoghi fatti, ma purtroppo è morto il produttore. Subentrò il figlio, che era un coglione, assolutamente non alla sua altezza. Così è saltato tutto. Invece, con La montagna incantata c’erano problemi di diritti, perché il fratello di Thomas Mann fece opposizione. Fu quando Luchino scrisse, poi, Gruppo di famiglia in un interno…

Mi dica di Burt Lancaster in Gruppo di famiglia in un interno
Lo vedevo come un padre. Anche se era sempre molto nervoso quando recitava. E siccome avevo molto, molto dialogo, lui mi diceva: «Helmut, parla piano, non ti capisco!».