Intervista a Gabriele Mainetti

Parla il regista di Lo chiamavano Jeeg Robot
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Nipote del compositore Stefano Mainetti, Gabriele Mainetti ha studiato cinema al DAMS di Bologna per poi formarsi a teatro e intraprendere una carriera d’attore. La sua vera passione è sempre stata la regia e prima di arrivare a scrivere, produrre e dirigere il sorprendente Lo chiamavano Jeeg Robot, nelle sale dal 25 febbraio, ha realizzato alcuni corti, tra cui Basette (2006) e Tiger Boy (2012). Quest’ultimo è entrato nella short list degli Oscar

Da dove nasce l’idea di Lo chiamavano Jeeg Robot, come ti è venuto il pensiero proprio di confrontarti con una storia che rischiava di essere molto complicata, cioè di fare un film di supereroi in Italia?

È importante dire che l’idea del soggetto è di Nicola Guaglianone. Se ne parlava da tempo, e se ti guardi altri due cortometraggi che ho fatto, Basette e Tiger Boy – si trovano in Rete – capisci molto bene come siamo arrivati a fare Lo chiamavano Jeeg Robot. C’era un tentativo, in parte riuscitissimo nel periodo più florido del cinema italiano di genere, e poi ripreso in modo pregevole da Claudio Caligari con L’odore della notte – che se ci pensi era Martin Scorsese a Roma – di trasporre un certo immaginario internazionale tipico degli Stati Uniti anche nel nostro Paese. Io sapevo di poterci riuscire perché avevo capito i topoi sia del genere che del corso drammaturgico, che per me è molto importante. Se la sceneggiatura non ha una certa struttura, si rompono i coglioni, c’è poco da fare. E poi volevamo giocare con degli elementi importanti. Sai, i fratelli Manetti, nello specifico Marco, un giorno mi disse: «Ga’, qua in Italia famo storie banali con personaggi impossibili», cioè che non esistono. «Le cose più belle le fanno quelli che fanno storie impossibili con personaggi reali». Cioè, se riesci a lavorare talmente tanto sul tuo personaggio, sulla sua verità, qualsiasi ostacolo gli poni davanti, possibilmente un ostacolo intelligente, ti racconta chi cacchio è questo personaggio. Quindi se ha i superpoteri, tu ci credi, però bisogna giocare con quella che è la nostra realtà, e la nostra realtà è questa. Cosa se ne farebbe un delinquente sfigato di Tor Bella Monaca, di quarant’anni, dei superpoteri? Rapinerebbe un bancomat. Se invece vai a imitare Batman, fai una cazzata perché non ci crede nessuno, oltre che essere inutile, visto che non dai un contributo culturale.

Quindi siete partiti dal personaggio e ci avete creato un mondo intorno?

Esatto. E non se ne scappa. Vedi, io amo il genere puro. Per esempio ritengo che Io vi troverò di Pierre Morel sia un film formidabile. Però poi ci sono tanti altri film di puro genere fini a se stessi, che giocano soltanto con quelle regole, che, sì, me li guardo anche, ma non mi emozionano. Cioé, non stiamo parlando di Old Boy che è uno dei miei film preferiti in assoluto. Quindi sì, la dimensione del personaggio dev’essere di una credibilità assoluta. Altrimenti non riesci a veicolare le emozioni dello spettatore. Ci è riuscito Ammaniti per esempio. Ricordo di aver letto Branchie a vent’anni e quando Valerio Mastandrea venne a casa mia gli dissi: «Ah Vale’, questo dobbiamo farcelo io e te insieme». Figurati, ero un ragazzino che ancora sognava di fare il regista. Purtroppo è stato trasposto in modo orribile in quel film con Grignani. Poi, forse, siccome stiamo parlando di un tipo di film a cui forse non siamo più tanto abituati, bisogna anche evitare di farci entrare lo spettatore a gamba tesa. E infatti questo è stato un aspetto su cui, in fase di sceneggiatura, sono stato intransigente. Per conquistarlo bisogna prima raccontare la dimensione in cui il personaggio si trova, dobbiamo mettergli davanti quei piccoli ostacoli e poi lo dobbiamo sorprendere. Alla fine vedrai che ci crederanno. Il tutto sorridendo, per poi arrivare anche a emozionarsi. Per esempio, mi hanno detto, e io mi sono convinto, che nella scena in cui il protagonista abbraccia la mamma della ragazzina, ecco, lì ci sia proprio il cosiddetto fatal flow del personaggio, cioè lui capisce tutto quello che rappresentava il rapporto con quella ragazza, recupera l’immagine interna femminile e si decide a salvare gli altri.

Invece, il personaggio di lei? Mi è piaciuto, ma nonostante l’elemento sessuale evidente, per tutto il film mi sembra che rimanga più una bambina che un’adulta. Perché non una bambina e un rapporto alla Leon?

Ma quello infatti era uno dei miei riferimenti chiave. Il personaggio dello Zingaro sta a quello di Gary Oldman come quello di lei sta a Natalie Portman e Santamaria sta Jean Reno.

Infatti non era un’osservazione fatta a caso: solo che in Leon hanno preso la Portman che all’epoca era ancora una bambina, con quell’inevitabile ambiguità in odore di pedofilia…

Sì, adoro Luc Besson. In più, in Lo chiamavano Jeeg Robot, loro sono due dissociati, perché solo due dissociati riescono ad associarsi e a far sì che tra di loro si stabilisca un rapporto profondo. Tanto che alla fine, nonostante lui dica di aver perso tutto, non è affatto vero, perché il solo fatto di essersi relazionati, ti dà la possibilità, dopo l’abbraccio, di alzare lo sguardo e guardare gli altri, e vederli per la prima volta. In Leon, invece, il discprso si limita solo a un amore tra loro due. Non va oltre questo elemento. Però ci sono gli stessi giochi. Per me è fichissimo che lei abbia 26 o 28 anni e si comporti ancora come una bambina, cioè che abbia questa profonda dissociazione, che sia portatrice di una lacerazione analoga a quella del protagonista. Non so se conosci Tor Bella Monaca, ma è una realtà allucinante. Ti dico solo che recentemente hanno sparato in faccia a un ragazzino di 16 anni solo per una questione che riguardava i suoi genitori che erano rinchiusi in carcere. Cioè, è un quartiere difficile dove la soluzione a delinquere a volte sembra quella più semplice. Quindi quel monologo che Claudio fa è ispirato a dei racconti veri che Nicola ha ascoltato nel centro sociale di Tor Bella Monaca. Quindi anche lui porta questa ferita. Quando lei sbrocca, lui riconosce se stesso in quella persona. E infatti, se ci hai fatto caso, lui perde completamente di vista il suo obiettivo, cioè il fatto che come tutti i delinquentelli, anche lui debba svoltare, ed entra in relazione con lei. Grazie a questa relazione può diventare Jeeg. L’elemento femminile è fondamentale in questo film, senza non avremmo Jeeg Robot, non avremmo il nostro supereroe.

Parliamo della produzione, come hai messo insieme il film?

Per un anno ho girato con questo soggetto nella speranza che qualche produttore si sensibilizzasse alla realizzazione del film. Mi hanno riso tutti in faccia. Dicevano che una roba del genere in Italia non aveva più senso, che se volevo mi facevano vedere le statistiche dei risultati del box office, che era un film troppo ambizioso, perché volevo fare un film così difficile, ma non ha senso, invece di guardare quello che avevo fatto prima e capire che forse un senso c’era eccome. Tutto si è concluso dopo un anno di ricerche con un produttore milanese che mi ha detto: «Guarda, io ho fatto film di genere però è davvero un sacrificio inutile. Però, siccome mi sembra che tu abbia qualche asset importante, non è che puoi aiutarmi a trovare qualcuno che mi dia i soldi per finanziare questo film?». Cioè, ha spostato il mio soggetto e mi ha porto la sceneggiatura di un film suo. A quel punto mi sono incazzato come una iena e, visto che i miei cortometraggi me li ero prodotti da solo, mi sono impuntato che dovevo farcela. Fortunatamente, per un caso assurdo, ho incontrato Rai Cinema dove mi han detto: «Guarda, questo film secondo noi può essere o una stronzata colossale oppure un piccolo capolavoro». E così, incuriositi dal progetto, mi hanno dato i soldi per scrivere la sceneggiatura. A quel punto, ho dovuto costituire una mia casa di produzione e da lì è partita l’avventura. Ed è vero che è stata molto dura, ma il fatto di essermelo prodotto da solo, mi ha permesso di avere il controllo totale del mio film. Rai Cinema è entrata in compartecipazione in modo talmente minimo che, quando abbiamo fatto le note di editing e loro hanno approvato, mentre me ne andavo mi han detto: «Ma dì la verità, a te proprio non te ne frega un cazzo di quello che abbiamo detto». (ride) Poi, però, dopo che l’abbiamo finito, siccome comunque aveva il nome attaccato al progetto, ha voluto aiutarmi. E poiché con 01 Distribution avevano paura di non riuscire a valorizzarlo mi hanno proposto di coinvolgere Andrea Occhipinti di Lucky Red, il quale aveva già letto la sceneggiatura in fase di ricerca fondi, ma si era spaventato all’idea di produrlo. Appena hanno visto il film, hanno detto di volerlo e, vista la reazione al Festival di Roma, si sono entusiasmati ancora di più e hanno deciso di raddoppiare la promozione.

Il coinvolgimento degli attori. Li conoscevi già?

Il fatto di aver fatto l’attore mi è servito molto in questo senso. Ed è stata soprattutto la scelta dell’attrice a richiedere più tempo. Ho provinato un sacco di attrici, ma nessuna mi convinceva davvero per quel ruolo. Sarà poi che sono molto legato alla realtà territoriale, ma sentivo l’esigenza di una romanità onesta. Sta di fatto che a un certo punto uno dei due sceneggiatori mi ha suggerito di dare un’occhiata a questa ragazza che aveva fatto il Grande Fratello e a cui si erano ispirati in fase di scrittura per alcune battute, perché era un personaggio talmente assurdo che forse, pensavano, mi sarebbe piaciuta. Come Ilenia Pastorelli è entrata, ha fatto il provino e se n’è andata, il direttore di casting si è messo a ridere e io ho detto: «Affanculo, guarda te se adesso mi tocca lavorare con una che non ha mai fatto l’attrice e che, arrivando dal Grande Fratello, rappresenta il cliché più stronzo di tutti i cliché». E invece l’operazione è riuscita alla grande, perché lei è proprio quel personaggio. Claudio Santamaria, invece, è un mio carissimo amico, è stata una delle fortune vere del film, perché lui si era innamorato del progetto, anche se io all’inizio non ero convintissimo, perché Claudio ha una fragilità molto trasparente. Io Claudio lo conosco fin dai tempi in cui studiavamo teatro, da almeno 20 anni. Io gli ho manifestato le mie perplessità, perché lui è un attore che mette sempre in forma quello che dice, come se dovesse rafforzarlo, e questo personaggio, da immobile che è, io lo volevo scomporre, rompergli il culo. Quindi l’ho obbligato a dire le battute senza che quasi si muovesse e l’ho fatto aumentare di peso. C’era questa grossa contraddizione evidente: la sua palese fragilità esteriore contrapposta all’immobilità e alla stazza del suo personaggio. Aggiungi la profondità del suo sguardo e alla fine la somma di questi particolari ha funzionato benissimo.

E Luca Marinelli?

Marinelli è stata la scoperta totale perché mi facevano incontrare tutti questi giovani attori provenienti dalle serie criminali romane che arrivavano con le narici allargate come tori e la parlata da borgataro gradasso, il che proprio a me non convinceva per niente. Bravissimi, eh, ma proprio non facevano per me. E ti credo che non fossi convinto, perché lo Zingaro è un personaggio sofisticato, è un personaggio con un carattere importante, è aggressivo ma in modo diverso, è un uomo che ha un talento, sa cantare, ha delle visioni diverse. E quindi ho detto. «Voglio incontrare Marinelli». E tutti che mi mettevano in guardia dalla sua formazione teatrale, dal suo carattere introverso. E invece l’ho incontrato: è vero che è un pazzo totale ma mi è piaciuta la sua intelligenza attoriale. Cioè, lui è venuto e mi ha portato gli elementi più raffinati del personaggio, non il suo lato cattivo, ma le caratteristiche più affascinanti. Comunque, prima di concludere, una cosa ci tengo a dire. Quando la gente mi chiede perché ho voluto fare questo film, ricordo ancora quando alcune persone mi dicevano dell’importanza di trovare un mio stile di regia, e io a queste stronzate non riuscivo a dare una risposta. A me piaceva solamente tanto cinema e la possibilità di giocare con i generi e armonizzarli…