Intervista a Carlos Aguilar

Conversazione con il critico cinematografico, saggista e romanziere Carlos Aguilar, in occasione del suo ultimo parto letterario, un coinvolgente e violento western dal titolo Un hombre, cinco balas
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La prima cosa che voglio chiederti riguarda la nostra posizione: tu a Madrid, io in Italia, due appassionati che parlano di eurowestern… Non sarà che, grazie al tuo romanzo, stiamo facendo rivivere un’epoca? Quella dei nostri padri-registi-attori: “C’era una volta l’Almeria…”

È proprio così, ma purtroppo non si tratta di far rivivere perché sarebbe impossibile. Quello che possiamo fare è evocare al giorno d’oggi uno stile western che è stato fondamentale per la nostra educazione estetica e direi anche sentimentale.

Quando parli di “uno stile fondamentale per la nostra educazione”, pensi al western in generale, agli eurowestern classici (Joaquim Romero Marchent, Eugenio Martin, Mario Caiano) oppure all’estetica italiana che ha trionfato dopo il 1964?

Mi riferisco al western in generale, ma più specificamente a quello italiano del periodo 1964-69.

Il protagonista del tuo romanzo, lo sceriffo John, non è più giovane ma è l’unico personaggio la cui fotografia non corrisponda al presente, bensì al passato. Per te cosa significa? Il tempo, per lui, si è bloccato quando è morta la moglie?

Senz’altro. Per questo nella prima foto, senza cappello, lo sceriffo sembra un giovanotto mentre nella seconda, col cappello e l’espressione più cupa, è ancora giovane ma ci appare afflitto e amareggiato. La morte di sua moglie Rosenda ha congelato il tempo, almeno per lui; è diventato un uomo passivo che entra in azione solo due volte: la prima quando tentano di stuprare Soledad e la seconda quando i cinque cattivi arrivano in città per ammazzarlo. Mi è parsa una bella idea creare un protagonista passivo e distaccato contrapposto a cinque individui attivi, malvagi e pieni di collera.

Prima scrivere Un hombre, cinco balas avevi letto altri romanzi western? Ti piaceva il genere anche al di fuori del cinema, avevi degli autori preferiti?

Sì, ho letto un certo numero di western americani e spagnoli. Alcuni mi sono piaciuti parecchio, in particolare di Will Henry e Marvin H. Albert.

Il protagonista del tuo romanzo è uno sceriffo di cui non sappiamo granché, se non che ha perso la moglie dopo diciannove anni di matrimonio e in circostanze delle quali lui si sente colpevole. Tu sai di che cosa è morta? Un infarto durante il sonno, una forma di crepacuore? Perché John si sente responsabile?

Volevo che la morte di Rosenda fosse enigmatica e incerta, che il lettore giudicasse da sé quel che ne pensa John, uomo molto capace di torturarsi mentalmente. Da parte sua, il motivo per cui lo sceriffo si incolpa è la certezza che Rosenda sia morta di dolore, l’angoscia di saperlo sempre in pericolo di vita.

L’altra caratteristica dello sceriffo è la violenza. Ormai quest’uomo vive per la morte e non esita a sparare sui delinquenti a sangue freddo, anche quando sono disarmati. È un po’ Clint Eastwood e un po’ Gary Cooper in Mezzogiorno di fuoco, ma l’anima Eastwood prevale… Cosa provavi, quando lo facevi uccidere spietatamente?

Il mio sceriffo agisce secondo un codice che considera giusto, pur di imporre la legge non contano i metodi quanto i risultati. Cosa provavo mentre scrivevo? Mi sembrava emozionante, interessante, insomma mi piaceva: l’autore deve comprendere i personaggi, entrare sotto la pelle e nell’intimo di tutti, compresi quelli che odia.

Contro di lui, contro l’eroe amaro, si muovono cinque delinquenti: Dan, Rick, Black, Desertor e Cuchillo. All’inizio la loro violenza non è evidente, il desiderio di vendetta che li nutre è quasi comprensibile. In cosa sono veramente diversi da John?

In realtà ho cercato di calarmi nella logica dell’epoca, per quanto all’interno di una certa stilizzazione. I cattivi hanno i loro motivi per volersi vendicare, nella loro ottica la mattanza sarà giustificata. Anche l’eroe sente che il suo modo di procedere è giusto. Quello che volevo assolutamente evitare era di applicare criteri contemporanei, ad esempio la sciagurata correttezza politica, a personaggi di un’epoca feroce, meno civile. La diversità fra John e i suoi antagonisti è che lui ha un’etica, per discutibile che possa sembrare da un punto di vista moderno, mentre i cinque banditi sono pura barbarie (anche se in maniera diversa fra loro perché possiedono personalità differenti).

Nel tuo western ci sono parecchie donne, tutte di primo piano: la tragica Soledad, la matura Chelo, l’ardente Erika e le “professioniste” (Diana, la bionda Pat), senza dimenticare le figure di sfondo come Martine e Miss Dor. C’è poi il fantasma di Rosenda che incombe su John. Ad un certo punto, ci si accorge che tutti gli uomini del romanzo sono definiti da queste donne: anche i cattivi, anche i banditi, la cui volenza appare evidente nei loro confronti. Le donne frustano ma non uccidono, sei d’accordo? Esse sono il reagente, la cartina di tornasole…

A quell’epoca le donne avevano un ruolo sociale di secondo piano. Non ho voluto cambiare la realtà, mettendole in una condizione paritaria: se ci avessi provato sarebbe equivalso a un atto di correttezza politica, cosa che personalmente detesto. Quello che ho fatto è stato di dar loro un’importanza più sottile entro la logica sociale e storica del romanzo, un ruolo determinante nell costruzione emotiva e drammatica. Senza i personaggi femminili l’intreccio sarebbe stato molto più povero e lo spirito del romanzo più superficiale.

Ci sono autori americani, come E. Manlove Rhodes o Stewart Edward White, che dedicano parecchie pagine alla descrizione del Southwest, mentre tu sembri puntre all’essenziale, come nel copione di un film. Il paesaggio è una presenza indispensabile del tuo western (ed è il deserto di Almeria fra le città di Downtown e Maderas) ma lo descrivi solo a tratti essenziali: è “calcinado”, polveroso e in genere disseccato. È una scelta visuale, la tua?

Sì, è una scelta visuale e ben meditata. Mi piace ridurre all’essenziale, fare in modo che sia il lettore, in un certo senso, a completare le descrizioni. Gli eccessi descrittivi mi stancano sempre e in un romanzo mi sembrano inutili, come se l’autore dubitsse dell’intelligenza del lettore.

Scrivere oggi un romanzo del West è una scelta coraggiosa. Che significato ha? C’è un futuro per questo genere letterario?

Guarda, fin da adolescente non c’è stato giorno che non abbia sognato di scrivere un western! Finalmente, a cinquantaquattro anni mi sono deciso. Non so se il libro rientri nel panorama editoriale attuale, so soltanto che il sogno di pubblicarlo si è avverato e perdipiù in un’edizione bellissima per concezione, progetto, iconografia… Tutto questo mi rende felice come il bambino invecchiato che sono e come scrittore professionista.

Dicembre 2014