Il Torture politico

Il torture porn esorcizza, in qualche modo, il bagno di violenza a cui la realtà ci sottopone quotidianamente. E’ il vecchio principio della catarsi aristotelica, valido anche negli anni Duemila.
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La tortura oggi è parte integrante della nostra società. Viviamo circondati da sevizie e violenze da non farci più caso e le esorcizziamo al cinema. Senza tirare in ballo le decapitazioni di guerra e le pruriginose frenesie giovanilistiche alla base dei delitti di Meredith e Chiara, basta dare uno sguardo al di fuori del genere per vedere quanto la comunicazione di massa si stemperi sempre più nella violenza. Pensiamo alla grande rivoluzione mediatica degli anni Duemila: le serie tv. Prendiamo a esempio il caso del classico 24 (ma si potrebbe dire altrettanto di The Shield). Nella prima stagione l’agente scelto Jack Bauer decapita un pedofilo per usare la sua testa come merce di scambio per essere accettato da un gruppo di terroristi. In una puntata viene torturato a morte e poi rianimato col defibrillatore per essere torturato di nuovo. Quando al CTU vogliono far parlare qualcuno non esitano a sottoporlo a elettroshock o gli iniettano qualche dolorosissima sostanza. Non si fa più distinzione tra buoni e cattivi, tant’è che la stampa americana si mobilitò definendo la serie “uno spot per la tortura”, “un messaggio di propaganda per la politica Bush”, “uno strumento per incutere terrore agli americani”.
Non solo, anche l’esercito americano si era interpellato su come lo show di Robert Cochran e Joel Surnow utilizzasse la tortura come mezzo giustificativo per raggiungere uno scopo. Tant’è che alla Fox decisero di smorzare un po’ i toni nelle stagioni successive facendo ingoiare un rospo amaro al suo produttore-protagonista Kiefer Sutherland.

E restando in vena di polemiche, qualcuno potrebbe definire torture porn (anzi il principe dei torture porn) pure La passione di Cristo di Mel Gibson. C’è da ridere. Ma avrebbe ragione perché, guardando Saw V (2008) di David Hackl, ci si rende conto di come la saga di Jigsaw si sia trasformata in qualcosa di diverso da quanto mostrato fino ad allora, divenendo più simile a una serie tv, con personaggi creduti morti che ritornano in vita e caratteri di seconda fila elevati a ruoli da protagonista. Insomma il riferimento a 24 non era poi così fuori luogo. Ma non solo. Saw VI (2009) di Kevin Greutert, addirittura, compì lo scarto definito, rivelando una volta per tutte la natura socio-politica del torture. Già, perché John, il Jigsaw originale interpretato da Tobin Bell, questa volta non se la prendeva solo con gli ignari responsabili di qualche inconfessato peccatuccio veniale, ma dichiarava addirittura guerra all’intero sistema sanitario americano. E lo faceva, come sempre, dall’oltretomba, attraverso registrazioni e trappole costruite molto tempo prima. Il che ci fa capire che questi non aveva un cazzo d’altro da fare che passare gli ultimi anni della propria esistenza a costruire impossibili macchinari di tortura, che se solo qualcuna delle vittime predestinate fosse morta prematuramente sarebbero risultate del tutto inefficaci. Sospensione della realtà. Ma qui funziona.

Comunque, parlavamo di politica. Come Michael Moore, più di Michael Moore, Jigsaw propone una feroce critica al sistema, vendicandosi di quell’assicuratore che gli aveva negato le cure necessarie nel momento in cui la malattia era stata diagnostica. Un piccolo cavillo nella polizia sanitaria che – sai com’è! – ti condanna a morte sicura. E con lui vengono smembrati, schiacciati, ustionati, sparati e triturati, tutti quelli che in un modo o nell’altro si sono resi complici, con il loro lavoro e la loro ambizione, di un compagine sociale che non lascia scampo. Un horror che piacerebbe a Obama. Innaffiato da litri di emoglobina che dovrebbero mantenere alto l’indice di gradimento. La prima scena è di quelle che toglie il fiato, con una ragazza e un ciccione che devono farsi a pezzi con le proprie mani per offrire alla bilancia più carne mozzata possibile. Chi si mutila di più ha salva la vita.

Alla fine Saw VI si trasforma in un revenge-movie, il cui messaggio mica-troppo-tra-le-righe sembra dire: “Quando la società ti lascia da solo di fronte all’ingiustiza, è il caso di farsi giustizia da solo!” Discutibile ma innegabile. In Les 7 jours du talion (2009) di Daniel Grou, le cose vanno nella medesima direzione. Un medico insoddisfatto dell’operato delle istituzioni, rapisce e tortura l’assassino che ha ucciso e violentato la figlia. Lo lega a un tavolaccio, lo paralizza e comincia a mutilarlo senza anestesia. Di fronte alla domanda di un giornalista che gli chiede se la giustizia privata sia una soluzione, lui risponde di no, ma quando lo stesso giornalista gli chiede se sia pentito, la risposta rimane la stessa: no. E proprio in questo veloce ma intenso scambio di battute risiede il senso di un genere che di film in film si scopriva sempre più reazionario e pericoloso. Tanto da travalicare i confini del cinema popolare. Cosa che invece non riuscì a The Tortured (2010) di Robert Lieberman, storia di marito e moglie che rapiscono e seviziano l’uomo che fu responsabile della brutale morte del loro bambino, dove l’aspetto dichiaratamente exploitation non permette al dramma di creare l’alibi (e la confusione nello spettatore) necessario.

Più interessante invece il caso di un film che solo all’apparenza sembrerebbe lontano anni luce dal torture porn, Giustizia privata (Law Abiding Citizen, 2009) di F. Gary Gray. Classico prodotto mainstream scritto da Kurt Wimmer, autore di stronzatone per grosse platee come La recluta (The Recruit, 2003) di Roger Donaldson e Ultraviolet (2006) di Kurt Wimmer e interpretato da attori buoni per tutta la famiglia come Jamie Foxx e Gerard Butler. Bene, il film di Gary Gray, già di per sé autore di zozzerie del calibro di Be Cool (2005) e The Italian Job (2003), ha molto a che fare col genere che stiamo trattando in quanto racconta bene o male la stessa storia di Les 7 jours du talion, ma lo fa spettacolarizzando il tema come solo il cinema della major sa fare. La vita di un uomo (Butler) viene distrutta quando due malviventi si introducono in casa sua e gli seccano moglie e figlia davanti agli occhi. Il suo avvocato (Foxx) non può fare niente per assicurare i responsabili alla giustizia e lui, ovviamente, si fa giustizia per conto suo. Non solo, se la prende pure con tutto il sistema giudiziario e accoppa più gente possibile, tra avvocati, giudici e poliziotti. Quello che rende Giustizia privata un film molto diverso da un qualsiasi Giustiziere della notte è però il modo. Il modo in cui il cittadino si ribella. Innanzitutto, i veri colpevoli vengono torturati a morte con un sadismo e un inventiva che manco in Hostel e poi Butler si prende gioco della polizia e della giustizia come solo Jigsaw saprebbe fare. E lo fa, come da tradizione, a distanza, da dietro le sbarre di una prigione, attraverso le trappole che in dieci lunghi anni ha minuziosamente architettato. Più torture di così!

In Unthinkable (2010), poi, le cose si evolvono ulteriormente. Gregor Jordan, regista che non-te-lo-manda-certo-a-dire, e lo sceneggiatore Peter Woodward osano ancora di più e rielaborano un concetto di torture che passa definitivamente dal piano intimistico-sociale a quello politico-internazionale. Un terrorista islamico nasconde alcuni ordigni nucleari pronti a esplodere nelle più importanti città d’america. Cosa farebbe il governo USA se potesse mettere le mani sul terrorista e il tempo fosse lì lì per scadere? Semplice, ingaggerebbe un Jigsaw di colore (Samuel L. Jackson) che si prenderebbe cura della situazione con il beneplacito del presidente, del gabinetto dei ministri e dell’intero staff della fottutissima Casa Bianca. Sono momenti difficili. C’è di che riflettere…