Il giallo secondo Mario Bava e altri fuoriclasse

Anticipazioni e inclinazioni personali: Mario Bava, Luigi Comencini, Luigi Bazzoni e altri esperimenti d’autore
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I nostri progetti di ordinamento e sistematizzazione filerebbero lisci se non fosse per un film che scardina completamente ogni tentativo di dare un’assetto ragionato alla pletora di opere consimili realizzate in questo periodo e che, di conseguenza, non può non essere trattato come esemplare a sé stante. Parliamo ovviamente di Sei donne per l’assassino (1964), secondo exploit giallo di Mario Bava, violenta carneficina ambientata tra le stoffe e i tendaggi di un atelier di moda. Il film è straordinariamente in anticipo sui tempi, inscenando quella teatralità dell’omicidio violento che sarà propria del giallo solo a partire dal decennio seguente, fino a divenirne cifra stilistica caratterizzante, a prescindere dalla riconoscibilità dei singoli autori. I volti vengono sfigurati contro stufe roventi e trafitti da artigli di ferro e lo strangolamento non è indolore come in molti film del periodo: la vittima non si affloscia dopo la prima stretta ma si dibatte in maniera convulsa, scalciando e rovesciando il mobilio. I personaggi sono pedine di un gioco macabro, come illustrano i titoli di testa con i volti e i corpi degli attori a mo’ di manichini, secondo una tendenza che si andrà evidenziando nei successivi film dello stesso autore. Come sempre in Bava i colpevoli (che sono tanti, a volte tutti) non vengono catturati alla fine del film ma si eliminano a vicenda, secondo un procedimento di “ecologia del delitto” che è già in nuce in La ragazza che sapeva troppo e che troverà piena esposizione in Cinque bambole per la luna d’agosto e, soprattutto, in Reazione a catena, cinico apologo sulla violenza il cui tutti contro tutti si conclude con un ultimo omicidio compiuto da due bambini. A illuminare le scene, veri e propri teatri di morte, luci rosse e blu che sono già quelle di Suspiria, ed è inutile dire che il film di Bava non avrà seguito nell’immediato e che bisognerà attendere l’arrivo di Argento per coglierne i frutti seminati con largo anticipo. Si prenda a confronto un film come Le notti della violenza, diretto da Roberto Mauri l’anno seguente: qualcuno ne ha parlato come di uno dei primi tentativi di seguire l’onda “baviana” ma, anche volendo tralasciare il risibile movente che spinge il folle di turno ad uccidere, non ci pare che il film presenti nemmeno un barlume della genialità del padre del giallo all’italiana. Inutile dire, quindi, che, all’interno del panorama giallo del decennio, Sei donne per l’assassino si configura come un vertice di stile irraggiungibile, allo stesso modo di Profondo rosso in quello successivo.

Il terreno è decisamente fertile e nel genere si cimentano anche registi che cercano di introdurvi caratteri e inclinazioni più o meno personali. Usiamo il termine “autore”, in cui poco ci riconosciamo, semplicemente in questo senso, facendo anche presente che alcuni dei film presi solitamente in considerazione dai cataloghi solo marginalmente attengono al genere, mancando a volte anche di un minimo intreccio giallo. Crediamo infatti che per l’appartenenza al genere sia quantomeno necessario un intrigo che scaturisca da una morte più o meno colposa, mentre spesso si è scelto di comprendere opere che sono semplicemente dei drammi, magari violenti, ma in cui non c’è un colpevole da indovinare e l’uccisione, se avviene, avviene in coda, tragica conclusione della vicenda. Difficile infatti includere nella nostra rassegna Una ragazza piuttosto complicata (1968) di Damiano Damiani, mentre è senz’altro più attinente Senza sapere niente di lei (1969), bel film di Luigi Comencini che vede Philippe Leroy impiegato di una agenzia assicurativa alle prese con un’ indagine che lo porta nel cuore di una borghesia corrotta, in una Milano perennemente uggiosa e bagnata. Si tratta più di un dramma intimista che di un giallo vero e proprio e l’attenzione si concentra tutta sulla tormentata relazione tra i due protagonisti (lei è Paola Pitagora), ma alla fonte del racconto c’è una morte poco chiara e il mistero si svela solo alla fine. Non altrettanto riuscito Più tardi, Claire, più tardi (1968), pretenzioso giallo diretto da Brunello Rondi, eccessivamente verboso e lento (come tutti gli altri film del regista, d’altra parte), in grado di lasciare insoddisfatti tanto gli appassionati del genere (ben pochi i colpi di scena sepolti nell’andamento soporifero del racconto), quanto i volenterosi amanti del cinema più oscuro. Di tutt’altra fattura quello che ci pare il migliore rappresentante di questa categoria, ovvero La donna del lago di Luigi Bazzoni e Franco Rossellini, splendido giallo “provinciale”, tratto da un romanzo di Giovanni Comisso. Caratterizzato da un’atmosfera trasognata e sfuggente, fotografato in un magnifico bianco e nero e scandito da un montaggio intelligente e spiazzante, il film gode soprattutto di un’ottima sceneggiatura scritta dai due registi con l’aiuto di Giulio Questi, che brilla tanto nei dialoghi quanto nella caratterizzazione dei personaggi, a un livello che non ha riscontri negli altri esemplari del genere di quegli anni. La misteriosa scomparsa di una donna, l’atmosfera onirica e sinistra che avvolge la storia e un protagonista “poesco” catapultato in un incubo dalla propria ossessione, ne fanno un vero capolavoro, cupa vicenda di amore e morte che non si scioglie e rimane avvolta nella nebbia. Il film merita di essere considerato, alla pari con il magistrale lavoro di Bava, uno dei vertici indiscussi del genere, in grado di condividere con il Pupi Avati di La casa dalle finestre che ridono la medesima rappresentazione di una provincia oscura e morbosa e di un male acquattato dietro le viste da cartolina. Una straordinaria via italiana al giallo purtroppo percorsa solo molto raramente.