Il contagio

Tra Pasolini e le Categorie Aristoteliche.

Il giorno prima

È in uscita in questi giorni Il contagio, tratto dal romanzo di Walter Siti, per la regia di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini. Ho conosciuto Matteo e Daniele quando li ho ospitati con il loro primo lungometraggio Et In Terra Pax al Premio alla Sceneggiatura Sergio Amidei a Gorizia, durante un’edizione in cui ho avuto il privilegio di organizzare la programmazione di una giornata di proiezioni. La verità, però, è che noi ci siamo conosciuti – quasi per caso – molto prima, attraverso la rete e i forum di appassionati collezionisti di pezzi di Isidora Juice, Ilona Staller, Viola Valentino. Mi scambiavo commenti con loro sui forum (in tempi non sospetti) e restavo puntualmente stupita dalla competenza che dimostravano nella lettura di quel tipo di musica e da quanto prendessero seriamente la sua analisi. Imparavo. Ma più che le nozioni prettamente musicali imparavo un approccio alla materia, qualunque essa fosse. Romanissimi e con quel tipico senso dell’umorismo cinico che non risparmia proprio nessuno, hanno una grande misura di se stessi e dell’arte che scrivono, sceneggiano, suonano, con la consapevolezza monolitica che solo i grandi possiedono: quelli che hanno chiaro dentro di sé quali sono le cose veramente importanti e quali sono solo convenzioni, cosa che permette loro di passare con disinvoltura e credibilità da un film come Et in Terra Pax (un pugno allo stomaco, violento ma poetico, commovente ma asciutto) a curare i capitoli dedicati alle più recenti canzoni popolari neo-melodiche per un evento sulla cultura partenopea.

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Si conoscono da due generazioni (le loro nonne erano amiche) e hanno condiviso da allora molte cose, tra cui gli studi al DAMS musica dove si sono diplomati con una tesi sul cinema (Matteo su Zerkalo – Lo specchio – di Andrei Tarkowsky e Daniele su Trois couleurs: Bleu di Krzysztof Kieslowski). Daniele è diplomando in pianoforte al Conservatorio mentre Matteo è batterista. Scrivono entrambi per la rivista Close-Up e compongono colonne sonore per cinema e teatro. Per un periodo suonano nello stesso gruppo e si esibiscono dal vivo sulle immagini (accompagnate da una loro colonna sonora modernizzata) del meraviglioso Il sangue di un poeta di Jean Cocteau. Decidono finalmente di mettere insieme il tutto: la scrittura di colonne sonore, la cinefilia e le annesse competenze tecniche e di aggiungere la scrittura di soggetti e di sceneggiature. Iniziano con una serie di cortometraggi (proiettati ed apprezzati in vari festival e selezioni di cinema d’autore): Crysalis, Europa, Sisifo, sceneggiature originali o ispirate ai miti greci. Nonostante i budget sempre poco generosi, la visione è sontuosa, e non odora mai di fatto al risparmio; questo perché supportata dall’aiuto di una cerchia di amici e collaboratori tecnicamente  straordinariamente competenti (l’attore Michele Botrugno per primo, fratello di Matteo).

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A queste persone decisamente fuori dal comune mi ha unito anche l’amore per Pasolini, uomo della mia terra e amante di Roma e delle sue periferie, dei suoi visi scavati, dei suoi panorami. Et in terra Pax è figlio di Ragazzi di vita ed era solo questione di tempo prima che i registi si incontrassero con Walter Siti (forse il più grande esperto vivente del poeta friulano).  Solo chi sa distinguere tra peccare e non fare il bene (“Peccare non significa fare il male: non fare il bene, questo significa peccare”) può permettersi di conferire epicità nei racconti di borgata; solo chi non fa distinzione tra il respiro tragico dei miti greci e dei classici di Kurosawa e la tenera ingenuità della canzone italiana più nazional-popolare, può soffiare un respiro di tale rispetto e sacralità in un’opera indignata, che grida all’ingiustizia, come Et in Terra Pax. Questa sera, finalmente, andrò a vedere Il Contagio al cinema, dopo averne letto il romanzo, seguito tutte le sudate fasi della stesura del copione e della produzione. Sono emozionata. So che quelli che mi pregio di chiamare amici non mi deluderanno mai, e questo non perché sono registi eleganti, colti e preparatissimi, ma perché appartengono per me alla categoria aristotelica più preziosa e rara da trovare in un artista, un amico, un compagno: la Sostanza.

Il giorno dopo

Quando ho letto il romanzo di Siti, ci ho messo un po’: sono stata costretta a poggiarlo sul comodino e prendermi diverse pause. Mi faceva troppo male, e al contempo ne ammiravo la prosa splendida ma spietata. Non avrei avuto idea, giuro, di come trarne uno spettacolo cinematografico. Aveva per protagonista questa casa popolare, con i suoi coinquilini le cui vite si intrecciavano e si susseguivano una dietro l’altra, pervase da quel virus che è la miseria, la precarietà esistenziale, quel vivere borderline (ma anche oltre) la legalità. Vite disperate come batteri all’interno di quel corpo-casa (che sarebbe piaciuto molto a Cronenberg). Come tutti gli intellettuali, Siti ti prende a schiaffi con la sua verità: quasi avesse raccolto spunto dalle borgate pasoliniane per adattarle a una lettura attuale dove la droga è ovunque, il sesso è spesso un gioco superficiale ma è anche un arma di forza e di scambio e la prostituzione è normalizzata. Il Contagio che ho visto ieri sera è stato qualcosa di completamente diverso: ho ritrovato i personaggi che avevo lasciato nel libro e ho assistito al loro incrociarsi in un viavai di persone su e giù per le scale del condominio (splendidamente fotografato), le chiacchiere da ballatoio delle pettegole irresistibilmente rese con una scelta di campi e controcampi in questo misto di dialetti dove magicamente tutti si capiscono perché veicolano la stessa, parca, comunicazione. Umanità che galleggia inerte nella merda della dipendenza da cocaina, della microcriminalità e dei conseguenti debiti con gli strozzini.

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La violenza come un’abitudine di cui si scherza al bar, nessuna ambizione verso la propria dimensione esistenziale ma il desiderio da parte di qualcuno di emanciparsi economicamente con tutti i mezzi che trova sulla sua strada. A osservare dall’esterno questo microcosmo, il professore (un misuratissimo Vincenzo Salemme), legato da un rapporto di innamoramento/dipendenza al ragazzino mai cresciuto Marcello (un sorprendente Vinicio Marchioni a cui vanno le mie scuse per esser stata prevenuta nei suoi confronti, e che mi ha dato una bella lezione di umiltà tirando fuori una performance strabiliante in una parte molto complicata). Marcello è un fancazzista impunito, a cui però non si può fare a meno di voler bene: si vede in ogni sofferta vibrazione di sua moglie (una strepitosa Anna Foglietta) che non riesce a portare sé stessa a lasciarlo e nel fatto che il professore faccia diversi tentativi di conoscere il mondo a cui appartiene, nonostante ne sia lontanissimo. Marcello è legato da un rapporto di amicizia chiamiamola “fluida” con Mauro (un Maurizio Tesei che reggerà sulle sue spalle l’intera seconda parte del film, come solo i pezzi da novanta possono permettersi) il quale, al contrario, scalpita per elevare il suo status.

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A metà film, la sorpresa: inizio a capire come i registi hanno intenzione di svoltare il romanzo. Uno stacco temporale di tre anni ci proietta in una nuova Roma, ricca e mafiosa, ammanicata con la politiche e le banche. Lo strozzino di quartiere (un bellissimo e perfido Nuccio Siano, autore assieme ai registi della sceneggiatura) è oggi un personaggio importante, calato nelle sfere alte del potere che tratta i suoi affari senza scrupoli e i suoi uomini senza pietà. Mauro lavora per lui, ha fatto i soldi, vive in centro a Roma e da qui in poi soffriremo con lui tutta la sua rabbia, il suo disprezzo per se stesso e per quello che fa, la sua incapacità di comunicare con la tenera moglie (Giulia Bevilacqua). Ma il passato ritorna e, come in tutte le parabole, deve chiudersi in modo circolare pareggiando tutti i conti. Un allucinato piano sequenza di quasi dieci minuti (il montaggio sonoro è un capolavoro) ci accompagna in un crescendo verso la fine di quella che si configura essere una tragedia, con i suoi simbolismi e i suoi momenti di religiosità che si chiude pareggiando qualche conto e ritornando alle origini di tutto, raccontato al professore che è ormai diventato un coro greco per noi.

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Non si può più parlare di “banalità del male” (per carità), ma in questo caso di ignoranza, forse, che porta con sè il male come un contagio: i registi ci offrono dei momenti di ironia e di romanità verace e ti portano a provare simpatia per i caratteri che poi scopri capaci dei gesti più turpi, con naturalezza. Anche la liaison tra Marcello e il professore è diventata puro erotismo e non più prepotenza (rispetto al romanzo) in una soluzione registica raffinatissima e carica di intensità. Non posso davvero svelare altro sulla sinossi, ma per ultima mi sono tenuta la cosa più struggente che mi è capitata negli utlimi tempi: andate a vedere il film anche solo per ascoltare la meravigliosa voce di Lucilla Galeazzi che canta un suo testo (che già da solo spezza il cuore) mentre scorrono in sottofondo le vite disperate degli abitanti del condominio nella scena-cuore del film. Poi mi direte a chi non è scesa una lacrima amara. Ci vuole coraggio a fare della tua arte denuncia politica e sociale, ma ci vuole coraggio e spalle larghe per avere gentilezza verso la miseria umana. Queste sono le cose che fanno grandi i film e le persone.