Herschell Gordon Lewis – The Wizard of Gore

Scompare a 87 anni l'iventore del cinema al sangue

Scompare a 87 anni Herschell Gordon Lewis – The Wizard of Gore, il regista che per primo ha intuito e praticato la strada del cinema sanguinario

Nel 1963 Herschell Gordon Lewis (regia) e David Friedman (produzione) con Blood Feast rivoluzionano l’horror, inaugurando un nuovo modo di rappresentare la violenza. L’ostentazione delle interiora, lo smembramento dei corpi e lo spargimento di litri di sangue divengono, dopo Blood Feast, l’essenza dei film horror. Non stupisce che questo nuovo tipo di espressività si sposi con il tema della tortura. L’immagine della morte appaga la pulsione distruttiva dell’uomo, ma l’accezione peculiare del tipo di rappresentazione lewisiana va oltre. Se l’omicidio tout court infrange il tabù sociale del “non uccidere”, l’elemento perturbante della visione emerge con lo spargimento di sangue, la violazione del cadavere, le amputazioni di arti o l’ostentazione di organi interni. Se tuttavia Blood Feast utilizza fascinazioni gore all’interno di un intreccio thriller, con il successivo, Two Thousand Maniacs! (1964), Lewis sfrutta il tema della tortura nella sua accezione più prolifica, quella legata alla vendetta. Lewis incrocia il tema della comunità killer (ripreso negli anni ‘70 da Wes Craven e Tobe Hooper) con il film musicale di Vincente Minnelli, Brigadoon (1954), dando vita a una comunità sudista composta dai 2000 maniacs del titolo, intenta a vendicare nel sangue i massacri della Guerra di Secessione. Gli yankees di passaggio vengono uccisi nei modi più bizzarri, spesso rituali e celebrativi, ascritti a un’idea di festa paesana malata e perversa che rispecchia, in toto, le forme di tortura più conosciute. A una delle vittime, prima di essere uccisa, viene tagliato un dito e poi un arto; un ragazzo viene fatto rotolare da una collina all’interno di un barile irto di chiodi, citando così il supplizio di Attilio Regolo. Un altro yankee legato mani e piedi con delle funi a dei cavalli (uno per ogni estremità), viene smembrato quando i due animali su incitazione della folla si muovono simultaneamente in direzioni opposte.

Una delle scene cult del film ha per protagonista la versione gore di un gioco tipico dei luna park americani. Il pubblico con una palla da baseball tenta di colpire un bersaglio che, se centrato, fa cadere un’enorme roccia posta in bilico sopra la malcapitata. La rappresentazione della violenza inaugurata da H.G. Lewis diviene consuetudine a partire dagli anni ‘70. Le idee che animano la sua rivoluzione espressiva si radicano nel théâtre du Grand Guignol, teatro parigino attivo dalla fine dell’Ottocento sino agli anni ‘50 del Novecento, in cui gli spettacoli rappresentati erano caratterizzati dalla raffigurazione o rappresentazione scenica di fenomeni paranormali, torture e uccisioni. Riconosciuto come antecedente del gore cinematografico, il Grand Guignol è anche una delle passioni di Lewis che, verso la fine degli anni ‘60, aprirà un teatro tutto suo a Chicago: il Blood Shed Theatre. Questa esperienza ispira Lewis che nel 1970 realizzerà il suo film più amato dal pubblico, The Wizard of Gore, in cui si sfrutta l’ambientazione in un “teatro dell’orrore” per mostrare efferate torture e raccapriccianti delitti. Il protagonista Montag The Magnificent, infatti, è un illusionista che durante i suoi spettacoli sottopone alcune ragazze a ogni genere di supplizio. Queste, inspiegabilmente, ritornano incolumi tra il pubblico alla fine del numero, ma dopo qualche ora le ferite prodotte dal mago riaffiorano sul corpo delle malcapitate provocandone la morte. Montag, immerso in una (meta)narrazione sospesa tra reale e illusione, si diverte a infilare lame nella gola delle ragazze, a triturarne le viscere, asportare cervelli. Non solo: Lewis anticipa e ispira gran parte dell’immaginario orrorifico degli anni seguenti, mostrando l’effetto di una sega elettrica su un corpo umano…

Dopo aver sguazzato nei territori più sanguinosi dell’exploitation H.G. Lewis nel 1972 si ritira, lasciando spazio a una nuova generazione più rabbiosa e politicizzata di contestatori. In registi come Romero, Liebermann, Craven o Boorman la  violenza estrema, assume spesso la connotazione di una rivendicazione sociale. La tortura, comunque, continua per tutti gli anni ‘70 ad affascinare l’exploitation americana tanto che David Friedman produce uno dei film cult più rappresentativi del filone nazi, Ilsa la belva delle SS (Ilsa, She Wolf of the SS, Don Edmonds, 1975). In questa pellicola si passa dalla scorticazione, all’evirazione, per concludere con la morte in camera di decompressione. Il suo sequel dall’ambientazione mediorientale, Ilsa la belva del deserto (Ilsa, Harem Keeper of the Oil Sheiks, Don Edmonds, 1976), propone una curiosa “bomba a orgasmo”, piccola come una provetta che, riposta nella vagina della malcapitata di turno, esplode sul più bello. Già negli anni ‘70, età dell’oro dell’exploitation americana, a fianco della produzione di B-movies di vari filoni (nazi, roughies, biker movies, etc) la rappresentazione gore della violenza viene via via assorbita sempre più dalle produzioni mainstream. Negli anni ‘80 si chiamerà splatter, e la tortura sarà una scatola schiusa.