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Rubber Flesh

Autore:
Miguel Angel Martin
Editore:
Nicola Pesce Editore

Il nostro giudizio

Quando non è usato con accezione negativa, per indicare un manierismo fastidiosamente snob, l’aggettivo autoriale si riferisce a tutto ciò che rende unico e personale un determinato modo di raccontare, in particolare un’impronta stilistica che rende un’opera immediatamente riconoscibile e associabile a chi l’ha realizzata. Quando non è un insulto, autoriale può significare Cronenberg, può significare Ballard. O può significare Miguel Angel Martin. La sua cifra è la freddezza asettica. La linea semplice e pulita, al limite dello stilizzato, ci proietta immediatamente in un ambiente gelido, disturbante, in cui si muovono personaggi alienati e anaffettivi, figli del loro tempo, espressione di uno zeitgeist futuro che porta all’esasperazione le dinamiche più malate del nostro. Non a caso ho associato Martin a Cronenberg. Nella fantascienza del fumettista spagnolo, infatti, c’è tutta la poetica della carne materiale da scultura organico, argilla mutante con cui portare all’esterno i mostri dell’inconscio.

In Rubber Flesh, in qualche modo Martin prende le mosse da lavori come Videodrome ed Existenz scavando a fondo nell’interiorità che essi esplorano, rimuovendo strato su strato fino ad arrivare al cervello rettile, al grado zero della semplificazione delle directory che stanno alla base della vita. I protagonisti di Rubber Flesh hanno una coscienza più simile a quella degli insetti che a quella degli esseri umani, sopravvivono, si riproducono e uccidono senza la più pallida traccia di emozione.

La lucidità di Martin è tagliente e, pur senza ricercare lo stupore facile buttando lì sesso e gore da due soldi, non si risparmia mai, racconta quel che vuole raccontare senza farsi scrupoli e con l’occhio clinico dell’entomologo. Martin disseziona più che esplorare, azzerando quasi del tutto la componente emotiva per mettere a nudo paranoia e paure con una freddezza tanto oggettiva quanto disturbante. Potente, ma non per tutti.