EroSSvastika o nazi-porno: i nomi sono conseguenza delle cose

Un funzionario del Ministero dello spettacolo li avrebbe definiti all’epoca dei fatti “nazi-porno”. Nazi-porno, porno-nazi o erossvastika? Il risultato, comunque, non cambia...
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Una volta ponevamo al centro la questione terminologica, ossia come chiamare questa decina di pellicole, fatte praticamente tutte nello stesso momento, tra la tarda primavera e l’estate del 1976, e uscite, a fiumana, nel giro di qualche mese, tra l’ottobre e il febbraio dell’anno successivo, con qualche estrema propaggine che si spinse fino a metà del 1977. Un funzionario del Ministero dello spettacolo li avrebbe definiti, all’epoca dei fatti, “nazi-porno”, lemma che è stato poi diffusamente utilizzato anche cambiando l’ordine degli elementi “porno-nazi”: il risultato non cambiava di certo. Poi arrivammo noi, che coniammo (ma lo coniammo noi? Oggi tutti ce lo attribuiscono, ma resto convinto di averlo copiato da qualcuno che lo aveva già usato. anche se non ricordo assolutamente chi fosse) la definizione “erossvastika”, che in realtà andrebbe scritto con le due SS maiuscole… Strano: anche questa volta come le due precedenti in cui ci siamo occupati del genere – in principio fu Gomarasca sul numero 4 di Nocturno serie fanzine, quello “rosa”, che si sottotitolava “irriverenze cinematografiche” e in copertina aveva il disegno fatto da Symeoni per il poster di K.Z.9 Lager di sterminio, anno 1996; dopodiché venne un book, l’incunabolo dei dossier, risalente al 2001, completamente dedicato ai nazi, e non solo quelli italiani –, anche stavolta, dicevo, sentiamo la necessità di partire dal nome, come se una volta trovato il nome giusto per circoscrivere il concetto, esso ci debba risultare più afferrabile. Nomina sunt consequentia rerum: i nomi sono conseguenza delle cose. Qui, le “cose”, sembrerebbero molto semplici da afferrare: porno-nazi, nazi-porno o erossvastika che siano, c’è dentro tutto quello che può starci come ridondanza tematica di nazismo o croci uncinate da una parte e di eros o porno dall’altra; stivali, uniformi, divise, campi di concentramento, lager, deportazioni, prevaricazioni, torture, sevizie, esperimenti atroci, atroci punizioni e via atrocizzando. Donne nude, culi, tette, pelo,frontali totali, accoppiamenti etero ed omosessuali e via cochonizzando (da cochon, “porco”, in francese, in tutti i sensi che porco e porcheria hanno anche in italiano). I punti di fusione tra i due nuclei tematici si riassumono nel rapporto sadico, deviato, squilibrato tra il nazista e la femmina nuda. La sintesi è solo questa, non c’è assolutamente niente di più e niente di meno. Ma anche messa in questo modo, cercando di riassumere e razionalizzare al massimo gli elementi reattivi della mistura, gli erossvastika o nazi-porno sembrano intonare a nostro dispetto e sfregio la celebre romanza della Turandot: “Il mio mistero è chiuso in me… Il nome mio nessun saprà”.

Noi vediamo misteri ovunque, è chiaro: quindi anche in questa nidiata di pellicole girate l’una insieme all’altra ma l’una all’oscuro dell’altra, che riescono, però, tutte così stranamente omogenee, troviamo ragioni per stupirci e chiederci: come fu possibile? L’unico dei registi coinvolti che dichiarò di avere visto al montaggio pezzi di un altro nazi fu Bruno Mattei, il quale ricordava la scena finale di Liebes lager, in cui le prigioniere insorte marciavano contro i tedeschi innalzando lance e picche con infilzati sulle estremità i cazzi dei loro torturatori. Ma nei suoi film non mise niente del genere. Anzi, Mattei citava quel frammento per misurare la distanza che intercorreva – a suo modo di vedere – tra come lui aveva cercato di approcciare il tema dei campi di concentramento, con tutti gli annessi e connessi, e come lo avevano affrontato gli altri. Era convinto di essere stato più storico e filologico dei suoi colleghi, benché i suoi nazi esitino nello spettacolo di mattatoi, grevi e bui, che non hanno eguali nel filone, perché anche Sergio Garrone quando arriva al dunque, al clou sanguinario dei suoi due Lager, L’inferno delle donne e Kastrat Kommandatur, adotta l’ellissi sul dettaglio dello strappo della lingua alla povera Leda Simonetti e sul maglio sbudellante che tocca a una sua anonima collega – non sto parlando di versioni censurate ma di quelle intonse, dove la macchina da presa sta di nuca alla Simonetti quando il boia la delingua, e di lato alla sventrata quando il pugno di ferro le sprofonda nello stomaco, talché si vedono solo lembi insanguinati di carne. Mattei faceva la predica, se così si può dire, da un pulpito dove invece si esponevano in bella vista e in primo piano uteri squartati e altre orripilanze del genere.

Bruno Mattei è stato il primissimo, se assumiamo come discriminante la data del passaggio in censura, a firmare un erossvastika. Il 12 ottobre del 1976 K.Z.9 Lager di sterminio – allora ancora intitolato Lager femminile 119 – Sezione sperimentale  – si vede negato il nulla osta per la pubblica proiezione. Un marchio di infamia che, trattandosi di nazi-porno, si tramuta in marchio di qualità, garanzia che lì dentro c’è roba tosta. Difatti, benché ci mettano subito mano per addolcirlo e mitigarlo, anche in seconda istanza la commissione lo respinge. Ci sono giusto dieci giorni tra quando Mattei presenta il suo film e il 22 ottobre, quando Garrone manda al vaglio censorio il suo Lager SSadis Kastrat Kommandatur, il titolo dei titoli tra i nazi-porno. Ora: può e deve colpire il fatto che le due pellicole più tremende e violente della covata, fossero anche le prime a essere state approntate. Perché? La spiegazione è che avevano entrambe come motivatori principali, come spinte propulsive, cogenti e determinanti, Camp 7 Lager femminile di Lee Frost e, soprattutto,  Ilsa la belva delle SS, di Don Edmonds, che in Italia era andato in distribuzione ad agosto, lanciato come “il più agghiacciante film sui famigerati campi sperimentali del Terzo Reich”. Giustappunto: sia K.Z.9 sia Lager Ssadis sono entrambi a spiccata componente medico-sadica. Anche se ciascuno il suo bene lo prendeva da dove poteva e come sapeva: Mattei dai libri e Garrone da se stesso, nel senso che gli esperimenti per trapiantare i coglioni ai soldati del Fuhrer lui non li concepiva come cosa diversa dalle operazioni diaboliche con cui Klaus Kinski nei gotici turchi che Garrone aveva appena girato a Istanbul sostituiva la pelle ustionata della sua donna con nuova e fresca epidermide. E questo era anche giustificato dal fatto che gli effetti li realizzava sempre Sergio Chiusi, scenografo e scenotecnico di fiducia in tutte le produzioni del regista e del produttore che aveva alle spalle, Mario Alabiso. Sergio Garrone, a nostro modo di vedere, ha fatto i nazi davvero più efficaci, il che vuol dire quelli più schietti, diretti, sinceri, senza sovrastrutture. Film in cui ci si spinge fino a copiare pari pari una scena di Ilsa in Kastrat Kommandatur – esattamente quando una prigioniera cerca di pugnalare il nazista Serafino Profumo, poi fugge, viene beccata, ammazzata e appesa a testa in giù. Nel film di Edmonds facevano fare quella stessa fine, uccisi e appesi nudi per i piedi, con il sangue a striargli il corpo, a due prigionieri, uomo e donna, sorpresi a fare l’amore – ma poi ci si aggiunge il pathos delle prigioniere che, nella notte, dalle finestre della baracca guardano fuori quel povero corpo appeso e piangono. Non domandate di questa sequenza, a Garrone: perché si emoziona e piange pure lui.