Daniele Misischia e l’inferno a Roma

Parla il regista di The End? L'inferno fuori
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Daniele Misischia è il regista di The End? L’inferno fuori, un horror tutto italiano che debutterà sugli schermi il 14 agosto. Misischia, 33 anni, ha un cospicuo curriculum come filmmaker, autore di corti, film autoprodotti e fan movie ispirati a videogiochi, Silent Hill, Resident Evil e Tomb Raider. Fatale, il suo incontro con i Manetti Bros, dei quali è stato aiuto e grazie ai quali è riuscito a trovare la strada per farsi produrre The End? L’inferno fuori. Una storia – mi racconta – che da anni insieme allo sceneggiatore Cristiano Ciccotti tentava di quadrare in un film, scontrandosi, però, solo con gente che gli faceva perdere tempo. I Manetti, invece, hanno capito le potenzialità della sceneggiatura e l’hanno trasformata in realtà…

The End? L’inferno fuori è un low budget che però non tradisce affatto questa sua natura. Sembra ricco, sembra pieno di cose. E lo è, pieno di cose. Recensendolo su Nocturno mi sono sentito in dovere di mettere in evidenza questo fatto, che per i film che si fanno in Italia è una qualità più unica che rara. E lo dico convinto…

Ti ringrazio per averlo notato. Sai, nasce tutto in fase di sceneggiatura e, ancora prima, in fase di scalettatura della storia. Nel senso che la regola base per questi film è quella veramente di cadenzare il giusto ritmo fin dall’inizio. Cioè, deve accadere qualcosa ogni due minuti, altrimenti l’attenzione scema e il film diventa noioso. Io penso che la “ricchezza” sia anche una questione di ritmo, non credi?

Sì, direi che è una delle componenti basilari, il ritmo. Fa passare in secondo piano il resto. Diciamo che il ritmo fa un bel gioco di prestigio…

Cristiano Ciccotti, in fase di sceneggiatura, ha saputo infondergli subito questo jump. L’ho letto la prima volta e ho subito capito che così funzionava, che non c’erano cedimenti, pause, frenate eccetera… Te la metto anche in un altro modo, se preferisci: la regola non era pensare di fare un horror chiuso dentro un ascensore, ma pensare di fare un film d’azione all’interno di un ascensore. Tenendo in mente questo, non cali mai di ritmo e non ti perdi l’attenzione dello spettatore. Perlomeno, questo è lo scopo, l’auspicio, l’obiettivo… Qualcosa del genere l’ho provata vedendo Buried,  girato tutto dentro una cassa, ma dopo dieci minuti te lo sei dimenticato che quel tizio sta rinchiuso all’interno di una bara…

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Beh, certo, Buried è la grande madre dei film trappola dell’ultima generazione. I trap-movies, come li abbiamo battezzati… Ma, registicamente, che approccio hai avuto con il film? Come lo hai gestito? Entriamo nel tecnico: un film d’azione dentro un ascensore, in quale “chiave” cerchi per raccontarlo?

Qui devo chiamare in causa Alessandro Roja, perché lui, come attore, per le sue qualità, mi ha consentito di puntargli la macchina da presa contro e di andare avanti sette, otto, nove scene di seguito senza mai staccare. Pensa che una volta abbiamo macinato qualcosa come 18 pagine di sceneggiatura una dopo l’altra. La macchina girava attorno a questa frenesia dell’attore, calato in una situazione più grande di lui, e questo dava molto ritmo e molta naturalezza. L’attore tende ad entrare, in questo modo, sempre di più nel ruolo, ti offre il meglio. Ti fai queste 17 scene con una inquadratura più larga e con una più stretta e ti sei portato a casa quasi 20 pagine di storia. Devo poi dire una cosa alla quale tengo, e cioè che prima di girare non mi sono riguardato nessun film ambientato in un ascensore. Non volevo farmi influenzare. E ti dirò di più: ancora adesso, a distanza di due anni da quando ho fatto The End? L’inferno fuori, non ho rivisto nessuno di questi film, perché ho paura di trovarci qualche idea figa che a me non è venuta (ride)…

Beh, ma lo sai come sono fatti i cinefili, no? Qualsiasi cosa uno giri, dopo c’è sempre la caccia a cercare i riferimenti, le citazioni, i prestiti presi da qui o da là…

Sì, sì, già ho sentito qualcuno che ha chiamato in causa Devil, il film prodotto da Shyamalan. Anche se la gente non calcola che, sì, sono film girati in un ascensore ma non sono film di zombi. E poi il mio è completamente ambientato in un ascensore, a parte inizio e fine, mentre Devil palleggiava tra varie situazioni. E anche lo stesso Piano 17 dei Manetti è un crime-movie con una parte ambientata fuori. Ma per me la sfida era quella di riuscire a stare dentro l’ascensore…

Non odiarmi, ma la prima volta che ho visto The End?, mi è folgorata nella mente l’idea di Demoni 2, quel breve pezzetto in cui Virginia Bryant e l’altro tizio restano chiusi nell’ascensore con fuori i demoni che scorazzano nei corridoi del caseggiato…

Guarda, Demoni 2 è sicuramente tra le ispirazioni del mio film, anche per una questione… nonostante il termine non mi piaccia… di palette cromatica. Nel senso che ci sono dei colori…

Cazzo, sì, hai ragione, è vero! I colori! Hai messo il dito nella piaga!

Ma lo sai anche perché? Negli horror degli anni Ottanta e  precedenti, si giocava molto con il colore. Invece, se ci fai caso, la maggior parte degli horror indipendenti di adesso, tendono a levarlo, il colore, anziché ad enfatizzarlo… Nel mio film ho voluto aumentarlo. Se ci fai caso, il rosso è molto rosso; quando lui spara diventa tutto giallo, l’ascensore ha una dominante blu, forte… Quindi, per me era importante anche dare un impatto al film lavorando sui colori e sui loro contrasti…

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Refn è l’unico nel cinema attuale ad avere conservato questa sensibilità per il colore. Ma c’è solo lui…

Forse un film abbastanza simile al mio è Train to Busan, ce l’hai presente? Anche quello è molto colorato e anche quel film coreano è un film di zombi… Ha, tra l’altro, delle analogie con The End?, casuali, evidentemente, perché noi lo abbiamo scritto molto prima. Se pensi al finale  o al fatto che il protagonista sia un uomo d’affari o ai problemi con la moglie… Saltano all’occhio queste similitudini…

Come hai scelto Roja? Lo hai scelto o te lo sei trovato?

Dunque, in realtà stavamo nella merda più totale. Gli scenografi avevano già iniziato a costruire il set, mancavano tre settimane all’inizio delle riprese e non avevamo il protagonista. Il problema non era da poco, perché se sbagliavamo il protagonista, sbagliavamo il film. Alla fine mi hanno proposto Alessandro, al quale avevamo già mandato la sceneggiatura. Roja era uno in gamba, l’avevo visto su Song’ e Napule. E, in più, aveva da sempre voglia di girare un film di zombi, quindi ha accettato. Quando ci siamo incontrati per discutere del ruolo, mi ha detto che avrebbe voluto improvvisare molto sulla sceneggiatura e anzi è stato lui a dirmi di puntargli la macchina contro e di andare avanti finché riuscivamo con le scene. Mi sono trovato bene a lavorare in questo modo, che poi è anche quello dei Manetti, perché anche loro fanno dei takes molto lunghi con gli attori per avere più materiale possibile a fine scena.

Altra cosa che funziona sono gli effetti speciali…

Doveva essere il punto di forzadel film e per questo ci siamo rivolti a Machinarium, di Leonardo Cruciano: loro lavorano anche con produzioni estere e allo stato attuale credo siano i migliori, i più preparati e forniti in Italia. Mentre gli zombi li ha truccati Carlo Diamantini che è un veterano dei film di zombi. Abbiamo specificato da subito che non dovevano essere cadaveri putrefatti con pezzi di pelle che cadeva, ma persone con una malattia cutanea estrema e siamo partiti da lì. Il make-up abbiamo stabilito fin dal principio che doveva essere bello da vedere e doveva essere veloce, perché avevamo diversi infetti da truccare e bisognava farne il più possibile. Ma Diamantini con Elisabetta, la sua assistente, sono stati molto in gamba.

In quanto tempo avete girato?

Per le scene dentro l’ascensore, il corpo del film, quattro settimane. Poi una quinta settimana per le scene in più in esterna e altri dettagli. Ho avuto il grande vantaggio che mentre giravo, c’era il montatore, Federico Maneschi, che montava in tempo reale e quindi, dopo il girato, potevo vedere il montato la sera stessa. Questo ti mette nelle condizioni di rimediare immediatamente ai difetti o alle carenze, nel caso che ti accorgi che ti serva qualche cosa che non avevi girato. Anziché sbattere la testa a fine riprese, lo recuperi subito.

Il risultato finale è in linea con quello che ti immaginavi e volevi?

Sì, direi di sì. L’unica cosa che forse non avevo calcolato, era di poter avere immagini di Roma vista in un certo modo. E lì devo dire che sono stati i Manetti, come produttori, che hanno spinto per farmi aggiungere una visione così affascinante di Roma, come non si era mai vista. Nella mia mente, forse, il film era ancora più estremo, veramente tutto dentro l’ascensore…

Questi sguardi su una Roma distopica mi viene da dire che siano un po’ una loro ossessione. E penso alla fine dell’Arrivo di Wang. Quando hai girato le scene in esterni? Al mattino presto immagino…

Sì, dalle 5 alle 7 di mattina, e devo dire che la gente in giro c’era comunque, perché a Roma la gente la trovi ad ogni orario. Ma sono stati tutti molto collaborativi… Ricordo che faceva un freddo cane, perché era gennaio. Avevamo iniziato a fine novembre e abbiamo terminato a gennaio. Diciamo che Roma in questo modo non è mai stata vista in un film, tantomeno italiano…

I tuoi progetti, adesso?

Diverse cose bollono in pentola. Intanto, il progetto di un horror che avevano scritto anni fa i Manetti, quasi una commedia o comunque con elementi da commedia al suo interno. E una seconda idea, invece, ha a che fare con un road movie, sempre horror di fondo, che ai Manetti convince molto e che vogliamo sviluppare…