Curiosando nel letto matrimoniale

I segreti della coppia vengono messi in piazza, pulsioni e corpi esposti: in bilico tra pruderie fine a se stessa e la natura voyeuristica del cinema che deve raccontare mostrando...
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Nella prima metà degli anni Ottanta, nel periodo di massimo splendore del filone horror, interpellato sulla violenza nei film, Jack Nicholson dichiarò: «Se in un film viene tagliata una tetta, tutto va bene. Se quella stessa tetta viene leccata, allora bisogna aspettarsi l’intervento della censura». Non si tratta del giudizio di un sociologo o di uno studioso del comportamento umano, ma è sintomatico del periodo, quando anche i film per adolescenti erano pieni di parolacce, nessuno aveva da ridire se gli eroi fumavano in scena e il sesso rimaneva perlopiù fuoriscena. Ma quelli sono anche stati gli anni in cui le cose hanno iniziato a cambiare, quando la tv portava più facilmente il cinema nelle case e i Moige di turno stavano iniziando ad alzare la voce.

Durante gli anni Novanta, l’approccio alla sessualità “in scena” è cambiato. Se ne parlava di più, le donne hanno cominciato a ribellarsi alla dualità santa/puttana dei personaggi del grande e del piccolo schermo, e anche i giochi di coppia hanno assunto un ruolo centrale nei racconti. Al di là di esempi più o meno d’autore, si pensi al grande successo di pubblico di un film come Basic Instinct, che propone il buco nero della fallocentricità del cinema. Il sesso è una pulsione irresistibile, sia per la messa in scena sia per la strategia di comunicazione, e l’accavallo di gambe di Sharon Stone/Kathrine Tremell ne è l’emblema.
Una presa di potere che si trasformerà in mille modi, dalle chiacchiere in libertà di Sex and the City, che sdogana la promiscuità femminile in prima serata, al cinema più intellettuale, passando per un’edulcorazione a proposito di violenza e turpiloquio, in favore di una crescente accettazione della libertà sessuale, che sfocia oggi in Nymphomaniac.

Facendo un passo indietro, va detto che fin dalla preistoria del cinema, la pornografia è stata riprodotta su pellicola (la prima scena per adulti di cui si ha traccia è nel film Le Coucher de la Mariée del 1896) sviluppando una propria industria parallela alla Settima arte. E mentre in Europa, già negli anni Cinquanta, qualche pioniere cerca di mescolare le carte “sfruttando” la forma documentaristica, nella florida industria Hollywoodiana il sesso è suggerito e spesso rimane fuori scena anche quando legittimamente giustificato dal matrimonio. Ma i costumi cambiano e già negli anni Settanta, con l’allentarsi delle maglie della censura, il sesso diventa una componente immancabile nei film. In America è perlopiù simulato, patinato o (ancora) suggerito; in Europa si aggiunge il sesso vero, anche e soprattutto nel cinema d’autore, in una continua ricerca della Natura dell’Uomo: perchè il sesso è spesso materia necessaria al racconto dei personaggi e non un elemento accessorio per rendere più accattivante un film.

In bilico tra la pruderie fine a se stessa e la natura voyeuristica del cinema (serve mostrare per raccontare), sono molti gli autori che scelgono di mettere in scena delle storie attraverso i corpi e le pulsioni dei propri personaggi. Nasceranno filoni legati al racconto di rapporti di potere, di solitudine o di perversioni, che manifestano interessanti scelte artistiche, da Tinto Bras a Ulrich Seidl. Ma come raccontare il rapporto di coppia? Muro portante del 90% del cinema mainstream, l’amore è sempre presente nei film e viene spesso raccontato nella sua (ri)nascita, attraverso l’immancabile bacio, a cui oggigiorno segue anche una scena d’amore (più o meno vestita). Ma c’è chi ha cercato di andare oltre, sfruttando la consapevolezza che anche le donne amano il sesso e non hanno paura a parlarne (per parafrasare, appunto, la sigla d’apertura di Sex and the City).
Facciamo degli esempi. In Intimacy di Patrice Chéreau, Orso d’Oro a Berlino nel 2001, un uomo e una donna si incontrano in una casa e senza conoscere l’uno il nome dell’altra avvinghiano immediatamente i loro corpi, denudandosi l’uno di fronte all’altro, citando apertamente la matrice Ultimo tango a Parigi. Per Chéreau i corpi dei due amanti rappresentano il testo del racconto. L’insistenza nel mostrare gli incontri amorosi, senza nascondere mani e genitali, lingua e capezzoli, spiegano l’evoluzione di un rapporto di intimità. I due (s)conosciuti amanti condividono una crescente intimità, chiara allo spettatore per l’evoluzione del loro rapporto fisico (dal preservativo al 69), che si concluderà con un addio di passione, nuovamente in omaggio a Bertolucci, che ricorda la prima scopata tra Brando la Schneider, in piedi con tutti i vestiti addosso. Un cerchio che si chiude: se una volta anche l’intimità del corpo si conquistava spogliandosi gradualmente, oggi è il contrario e la tragedia è la perdita dell’amore e non della vita stessa.

A pensarci bene, nel nostro passato, anche recente, la felicità dell’uomo medio occidentale si è sempre misurata sull’accettazione degli altri, passando per lavoro e famiglia. Oggigiorno, grazie anche a una (presunta?) liberazione sessuale, la felicità si misura sull’amore ricevuto, anche (e spesso soprattutto) fisico. In 9 Songs (2004) di Michael Winterbottom il climatologo Matt e la studentessa Lisa si incontrano a un concerto e la loro attrazione si trasforma immediatamente in sesso, ovvero relazione. Anche per Winterbottom è essenziale mostrare l’evoluzione del loro rapporto attraverso la naturale propensione dei corpi a godere l’uno dell’altro, senza censure. Cunnilingus, masturbazione, feticismo ed eiaculazione sono il linguaggio del corpo più naturale per mostrare allo spettatore la distanza tra amore desiderato e amore reale. I due ragazzi, esemplari della cosiddetta Generazione X, vivono intensamente, inseguono l’amore e il sesso, vanno ai concerti, ma non si mettono in gioco fino in fondo, se non cercando un’immediata e continua felicità nell’approvazione dell’altro. La distanza che si crea tra quotidianità (e quindi vera intimità) e incapacità di compromettere la propria individualità, li separa. Ma la sessualità condivisa non si perde e ritorna in flash glaciali, come l’Antartide che Matt sorvola per lavoro. 9 Songs, che a prima vista potrebbe sembrare freddamente accusatorio o tristemente melodrammatico, grazie alla scelta di Winterbottom di mostrare ciò che una volta sarebbe rimasto fuoricampo, si trasforma in una naturale ed emblematica storia d’amore dei suoi (e ancora nostri) tempi.
È l’amore ai tempi del post Aids, quando la repressione dovuta alla paura della malattia ha arginato il desiderio sessuale di un’intera generazione, che a un certo punto deve esplodere.
E non è un caso, spostandosi momentaneamente nel cinema americano, se nel 2006 viene alla luce un film come Shortbus. Definito su wikipedia “pellicola caratterizzata da scene sessuali esplicite pur non trattandosi di un film pornografico” (gulp!), rappresenta la liberazione sessuale di un gruppo di persone afflitte da solitudini più o meno diverse. Giochi erotici, palline cinesi, orge e dominatrici riluttanti rappresentano un’escalation di voglia di vivere una vita piena, affogando l’inadeguatezza nel piacere ormai negato a causa dell’Aids, della crisi della coppia e del lavoro, nonché (siamo a New York) dell’11 settembre. Un atteggiamento che sarà poi ripreso dalla commedia leggera A Good Old Fashioned Orgy (2011) in cui un gruppo di amici spensierati over 30 decide di ribellarsi alla fregatura della propria generazione («ci hanno tolto il lavoro e il sesso libero») lasciandosi andare a una bella orgia. Qui il sesso, a causa della natura leggera, divertente e tutto sommato consolatoria del film, viene suggerito, accennato e non mostrato nella sua “cruda” realtà. A dimostrazione che la scelta autoriale di mostrare il sesso è strettamente legata alla scelta di penetrare lo spettatore.

La natura drammatica della sessualità nel cinema è ancora più evidente se legata al racconto della coppia di lunga data. Non possiamo non citare il lavoro di Catherine Breillat che per esempio in Romance (1999) racconta le conseguenze della mancanza di appagamento sessuale di una donna, il cui fidanzato rinuncia ad avere rapporti sessuali. Classica trama da “luci rosse”, viene messa in scena praticamente al pari di un film porno, ma totalmente privo di gioia, in cui il piacere fisico è scollegato dal benessere interiore. Una tesi interessante, totalmente opposta alle tematiche del cinema americano per intenderci, e probabilmente molto più attinente a questi nostri strani giorni. Anche il cinema italiano ha detto la sua in materia. Matteo Garrone in Primo amore (2004) racconta il “gioco di coppia” sadomasochistico tra un uomo con un feticismo per la magrezza e l’appagamento di una donna nel trasformare se stessa per il piacere di lui. Una metamorfosi del corpo che in questo caso diventa disturbante atto sessuale in sé. Mario Martone in L’odore del sangue (2005) indaga un triangolo di perversioni “raccontate”. Un marito (Michele Placido) tradisce la moglie (Fanny Ardant), con la quale la passione sembra finita. Ma la moglie, a sua volta, ha un’altra relazione. L’uomo le chiede di condividere i particolari, ma una volta messo di fronte a quello che a prima vista sembra un gioco piccante, scoprirà di non poter accettare di diventare lui stesso “l’altro”. Martone molesta lo spettatore con l’esibizione del corpo e la mortificazione degli istinti, raggiungendo un pathos irritante e al contempo stimolante per corpo e spirito – il film fece scandalo per la scena esplicita di un blow-job intravisto da Placido in un locale notturno.

Il matrimonio bianco è la nuova solitudine. Nel cinema uomini e donne sole risvegliano la propria voglia di vivere grazie all’amore e le coppie annoiate ritrovano nuovo equilibrio grazie a cambiamenti e improvvisi eventi fuori dal comune. Ma non sempre è così. Paolo Franchi, nel sottovalutato e ingiustamente sbeffeggiato E la chiamano estate ha provato a raccontare il contemporaneo squilibrio tra corpo e corporalità, o meglio ancora tra quello che siamo e quello che vorremmo/dovremmo essere.
La messa in scena di Franchi è onirica e personale, spiazzando lo spettatore ormai troppo abituato a spiegazioni dettagliate e trame ben scandite, eppure la glaciale stanza bianca in cui i corpi di Isabella Ferrari e Jean Marc Barr si amano senza sesso e le dark room in cui Jean Marc Barr eiacula per necessità, sono i due opposti in cui la coppia del nuovo Millennio vive quotidianamente. Il mondo ci vuole appagati, sempre passionali e felicemente in intimità, la natura dell’uomo è invece misteriosa, squilibrata tra istinto animale e celebrale ricerca della perfezione. Da qui la scelta di Franchi di navigare tra bianchissime lenzuola, alla ricerca di una vagina dove perdersi, ma che inspiegabilmente non riesce ad aprirsi. Non una metafora della stupida e alquanto anacronistica differenza tra uomo e donna, ma rappresentazione sospesa, atta a sollecitare lo spettatore a tirare somme, unire puntini e magari aprirsi a una ricerca interiore.

Pensiamo anche a La vita di Adele di Abdellatif Kechiche. Un film realista, vero, che segue la sua protagonista passo passo nella sua crescita personale e sessuale. Una messa in scena totalmente opposta a quella onirica di Franchi, ma comunque mossa dalla stessa volontà di provocare lo spettatore. Adele ed Emma, attraverso le lunghe scene di sesso, reale e appagante, con i due corpi avvinghiati sfrenatamente alla ricerca l’una dell’altra, raccontano una storia che va in una direzione diversa da ciò che accade nella vita delle due amanti. Il comportamento “in società” e dentro la camera da letto è sempre coerente nella vita di Adele, ma quello di Emma si contraddice. Come avremmo potuto cogliere il sottotesto legato all’ambiguità di Emma (e del suo ambiente d’origine), che sceglie il successo personale sacrificando l’amore, senza aver assistito alla passione travolgente, e qui sì, piena di gioia e godimento, che si sprigionava tra le due ragazze? Sono stati in molti a criticare ferocemente la scelta di mostrare così a lungo e così specificatamente il rapporto sessuale tra le due bellissime protagoniste, tacciando Kechiche di sfruttarle per un effetto, chiamiamolo così, alla Basic Instinct. Ma quanto sarebbe stato più povero l’ultimo sguardo di Adele verso Emma, se non avessimo partecipato alla sua scoperta del corpo dell’amante?

Oggi che le coppie si formano naturalmente, ai concerti, nelle stanze in affitto o nel matrimonio, è assodato che l’intesa sessuale sia parte integrante dell’intero rapporto. Finalmente il cinema ha scelto di raccontarlo. Una liberazione sessuale che ancora infastidisce, disorienta e disturba lo spettatore, i critici e il retaggio recente del “non si dice”. Eppure può essere mostrato. La prossima frontiera sarà un utilizzo più smaliziato del corpo maschile: iniziano a vedersi le prime “docce gratuite” fatte da maschi (vedi Rush), c’è meno ritrosia al full frontal (vedi Shame) e ora che la serie tv Girls ha anche sdoganato lo sperma, potremmo dirci pronti a guardare la sessualità, giudicandone l’utilizzo sena pregiudizi. Intanto Jack Nicholson ha lasciato il cinema. Che voglia dire qualcosa?