Con Tulpa è ancora Profondo Rosso

Federico Zampaglione riscopre l’anima sottile del giallo all’italiana, in un film che finalmente potrebbe rappresentare il ritorno del nostro cinema ai fasti di un tempo...
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Pistola alla tempia e dieci secondi per rispondere: Che cos’è il Giallo (maiuscolato!) all’italiana? Un attimo per figurarsi il proprio cervello schizzato sul muro di fronte – a rallentatore, ovviamente – e poi  un pensiero: il Giallo è Argento, i titoli zoologici degli anni Settanta e poi l’epigonismo senza limiti che gli è fluito dietro come conseguenza. Magnifica conseguenza. La risposta è questa. La mia. Ma non ce ne sono altre possibili. Il Giallo italiano è nato ed è purtroppo morto con Argento, nel segno di un lungo serpente che si arrotola a cerchio su se stesso e finisce col divorarsi la coda. Poi, sottilizziamo pure che prima c’è stato Mario Bava, negli anni Sessanta, e che Sei donne per l’assassino fu un prototipo per L’uccello dalle piume di cristallo – non è vero, ma facciamo finta di crederci, come tutti; e dopo sono venuti i gialli post-moderni, dell’era televisiva, ai quali un tempo dedicammo un bello speciale durante la seconda incarnazione della rivista – anno 2001 – ma che in sostanza con il vero Giallo all’italiana c’entrano poco, anzi non c’entrano niente, nonostante i guanti, le lame, le soggettive, i dettagli iperrealistici e tutto l’armamentario fenomenologico del genere.

Perché è questo, il grande equivoco. Che il Giallo all’italiana sia solo quella roba lì, l’oggettistica e l’orpellistica e che se c’è quello c’è Giallo. No. Il Giallo all’italiana è una forma mentis, uno state of mind che o ce l’hai o puoi essere anche il più bravo al mondo ma non lo riesci a ricreare artificialmente, in vitro. Per tre, cinque, sette anni è stato possibile al nostro cinema, per una fortuita e complessa serie di circostanze, avere le condizioni idonee allo svilupparsi di questo quid. Forse era l’aria, l’acqua, la luce del periodo. Fatto sta che il Giallo è nato ed è morto nel giro di quel lustro degli anni Settanta, massimo un settennio, via. I collezionisti di gialli all’italiana pongono di solito il 1982 come il termine dopo il quale non vale più la pena cercare e raccogliere esemplari. Se vogliamo fare un titolo limite diciamo Tenebre di Dario Argento: il punto in cui la testa del serpente si salda alla coda. Dopo sono venute variazioni sul tema, gemmazioni a latere.Non credo, anzi sono convinto che non si possa parlare di evoluzione. Almeno non fino a questo Tulpa di Federico Zampaglione, anche se non voglio essere ingeneroso con lo splendido Amer di Forzano e della Cattett che qualche anno fa ha fatto gridare al miracolo e alla meraviglia di uno Spirito del Giallo all’italiana rievocato dalla tomba. Ma Amer era un oggetto strano, quasi ingestibile e improponibile rispetto al gusto dei più: video arte, roba per un’élite molto ristretta. Tulpa è qualcosa di diverso.

 

TROMPE L’OEIL

I primi cinque minuti. L’intro basta per capire tutto il resto, inalarne subito l’essenza. Il mattino che dà il polso della giornata. Viene banalmente da dire che i film hanno preso l’abitudine di partire tutti sottotono, in sordina, e di tenere lo sviluppo per dopo. Tulpa va in controtendenza. Riprende la vecchia abitudine (che non era prerogativa solo del Giallo ma in generale di un po’ tutto il nostro bis) di cominciare con il botto, con un atto plateale. Zampaglione mette in scena un omicidio, efferato ai limiti del sadismo e adornato da corrività feticistiche molto spinte, corde, calze, scarpe, tacchi, cuoio, fibbie, lacci e lacciuoli. Un gioco sadomaso tra un uomo e una donna, dove il sangue finisce per ruscellare per mano di un terzo intruso, assassinante. A volersi mettere nell’ottica dello studioso, del comparativista, questa lunga sequenza strutturata, come tutti gli altri momenti di omicidio della storia, a mo’ di piccolo film nel film, non è affatto impostata come se il regista volesse dire al pubblico: «Guardate, sto facendo  quello che una volta vedevate nei gialli di Argento».

Non c’è volontà di mimetismo, non c’è citazionismo, non passa l’informazione che i movimenti di macchina e le inquadrature siano un gioco di rimando e di riporto. Difatti, non lo sono. Zampaglione fa il suo cinema e ha il suo stile, molto classico, solido, quadrato. Anche a volerla mettere sulla sensibilità coloristica, che nella sequenza in oggetto è notevole, un dato saliente, e che risulta dominata dai rossi e dagli ori, non c’è la sensazione che si stia argentizzando. Eppure, dall’inizio all’ultimo stacco sulla ragazza immobilizzata, davanti al cui viso l’omicida depone il suo macabro trofeo, vive in questa sequenza il fantasma del Giallo che fu. Riconosciamo i segni dell’antica fiamma. Segni. Piccole tracce, magari infinitesimali, che sono però come i sassi di Pollicino seminati lungo il sentiero che conduce alla meta.

Zampaglione si comporterà così anche in tutto il resto del film, perché, come già detto, il buongiorno si è visto dal mattino. Prende un piccolo elemento antico e significante, anche solo un gesto – per esempio il dettaglio di come la mano dell’omicida brandisce l’arma, che nel caso di specie è uno splendido pugnale rituale – e poi lo dissemina all’interno di un quadro globale nuovo: l’occhio e la mente non si accorgono dell’inganno ma una zona subliminale del cervello riconosce lo stimolo occulto e risveglia una madeleine nota. È una cosa terribilmente raffinata, una specie di trompe l’oeil in virtù del quale vedi quello che hai sotto gli occhi, assolutamente inedito, ma pensi a cose già viste. E non ti spieghi perché.

LA CITTÀ VUOTA

Mentre veniamo assorbiti dalla visione, ipnotica, di Tulpa, siamo quasi indotti a immaginare che la vicenda di Claudia Gerini, una manager sessuomane che andando per dark rooms calamita la follia e le azioni omicide di un assassino ubiquo e onnisciente, non sia ambientata nel nostro tempo ma in un altro, spostato nel futuro. Una distopia che potremmo addirittura immaginare essere un altro mondo. Il quartiere dell’Eur dove la protagonista corre – sui titoli di testa: questa sì una bella scena manualistica da Giallo, che con la musica a commento potrebbe essere stata tolta da un film degli anni Settanta – o passeggia con un amica, è un luogo totalmente spogliato di presenze umane. Più in generale, Tulpa fa molto leva sull’assenza e sulla desolazione, e sul loro equivalente uditivo, il silenzio, come tramiti per giungere allo squilibrio e alla paura nel cosmo, ma questa è un’altra strada espressiva da indagare in altra sede. Questa Roma potrebbe essere, quindi, Parigi o Londra o Boston: pressoché un’astrazione di sole architetture e geometrie che richiama, in chi guarda, topografia di un film, scenograficamente molto “mentale” come Tenebre. Nel Giallo tradizionale italiano lo spazio e il lavoro su di esso erano gli indumenti minimi e indispensabili del genere. Lo spazio esterno, la città, e lo spazio interno, le case, gli appartamenti.

Anche per quei registi che non ne avevano consapevolezza – a differenza di Argento, i cui film sono anche in grandissima parte luoghi e ambienti dove sono stati girati. Zampaglione riporta in auge il primato ambientale: quello che succede è assai meno importante di dove succede e di come succede. Tulpa, non va scordato, è il nome del locale dove tutto ha inizio e dove tutto riconverge, il cuore (rosso rubino è il colore che lo definisce) attraverso i cui infiniti cunicoli e gli anditi misteriosi esplorati dalla Gerini in una bella e lunga sequenza piena di suspense, si spinge il sangue nel grande corpo sotterraneo della città per quindi fare ritorno, in quel muscolo cardiaco, simbolico ed esoterico…  Si ha la sensazione di poter andare avanti all’infinito nel trovare agganci che da Tulpa portano al Giallo classico italiano, in un processo evolutivo ed emulativo mai plateale e molto sottile, come già detto. Credo sia abbastanza entusiasmante, questa cosa: tra le molte altre ragioni perché ci testimonia nei fatti che un cinema di genere che non sia uno sterile fossile, un’inerte reviviscenza, è possibile. E che gli italiani potrebbero farlo meglio di chiunque altro. Come un tempo. Che la lunga notte sia veramente finita?