Ciak… si muore!

Considerati il Sacro Graal della pornografia, gli abominevoli film in cui gli attori muoiono davvero, dalla leggenda metropolitana alle ambigue trasposizioni su grande schermo
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Lo scenario prevede che la vittima, posta dinanzi a una macchina da presa, subisca sevizie e abusi fino al raggiungimento del suo reale decesso. Per coloro che ancora ne ignorassero l’esistenza, questa è, in sintesi, la filosofia degli “snuff” (anche noti come real thing), filmati clandestini finalizzati a documentare, per un pubblico ristretto e dai gusti molto particolari, la prevaricazione “totale” dell’essere umano, codificando la sua morte come atto di gratificazione sessuale. Gli snuff esistono davvero? Nì, cioè sì – almeno per il sottoscritto. È una tesi basata sulla logica: accantonando disquisizioni logorroiche sulla mancanza di una prova tangibile nelle mani di noi comuni mortali, è cosa nota il recente ritrovamento in una vasta operazione di Polizia di videocassette (prodotte in Russia e vendute fino in Italia) concernenti abusi sui minori. Dmitri Vladimirovich Kuznetsov, di professione aiuto meccanico, realizzava i videotape nel proprio appartamento a Mosca, reclutando minorenni direttamente negli orfanotrofi o nelle stazioni ferroviarie; gli investigatori hanno dichiarato che tra i video sequestrati alcuni contenevano stupri e addirittura omicidi delle piccole vittime. Dalla cronaca recente altre testimonianze: all’inizio degli anni Novanta, durante il conflitto balcanico, il Corriere della Sera pubblicava un articolo sul sequestro (avvenuto in Lombardia, non nel Sud America) di alcuni videotape concernenti scene di abusi e omicidi perpetrati da militari serbi ai danni di donne bosniache, probabilmente destinati a una sorta di commercio clandestino. Una confessione anonima presente in Rete sul sito della TigerWolfCrew, un’associazione costituita da vittime di abusi in età infantile, ha rivelato dettagli strazianti: «Nostro padre iniziò a fotografarci all’età di 4 anni. A quel tempo abusava già di noi. Gli piaceva fare fotografie e siccome la feccia attira la feccia, trovò altri schifosi bastardi a cui piaceva ritrarre bambini piccoli in pose sessuali. (…) Le macchine fotografiche divennero cineprese da 8 mm e le semplici pose si trasformarono in scene di sesso. All’età di 5 anni vidi una bambina morire in uno snuff movie. Aveva la mia età. Mio padre era tra gli uomini presenti».

Nel 1997 due giovani tedeschi, tali Ernst Dieter Korzen e Stefan Michael Mahn, sono stati arrestati per aver violentato, torturato e ucciso una prostituta di 21 anni allo scopo di ricavarne un videotape su cui lucrare clandestinamente. I due ebbero bisogno di rigirare la scena perché la prima vittima era spirata troppo in fretta, e a denunciarli fu la loro successiva preda, riuscita miracolosamente a divincolarsi. Ciascuno è libero di sindacare sull’interpretazione di questi fatti, sollevando l’obiezione che, comunque, prove di un simile mercato – dettaglio importante nell’assunto “leggendario” del fenomeno – non ve ne sono. Ma proprio nei meandri della settima arte la mitologia dello snuff avrebbe tratto linfa vitale. Non è un caso che alle radici di questa leggenda vi fosse un film fatto e finito dal titolo Slaughter, rimodellato in misura di quanto – vero o falso – aleggiava nelle cronache d’attualità intorno alla metà degli anni Settanta. L’antefatto riguardava essenzialmente le gesta di Charles Manson e della sua ben nota family. Tra una efferatezza e l’altra compiute al calare degli anni Sessanta, l’infernale squadriglia si era impossessata di una postazione mobile della NBC, all’interno della quale erano presenti cineprese e pellicole vergini destinate ai servizi d’attualità. In realtà la merce fu recuperata del tutto integra, ma era stata sufficiente la confidenza di un anonimo ex-membro della “famiglia” al giornalista Ed Sanders, relativa a “un breve filmato raffigurante una vittima femminile morta su una spiaggia”, per innescare la miccia. Non si trattava nemmeno di una visione personale dell’interlocutore, ma di un “sentito dire” dai membri della setta. Fu lo stesso Sanders a battezzare nel suo libro The Family: The Story of Charles Manson’s Dune Buggy Attack Battalion (1971) il citato filmino con il termine “snuff”, il cui significato, tra le varie accezioni, comprende anche quello di “morire”. Altri rumors, privi di concretezza, continuarono a circolare sulla realizzazione di  snuff in California, nel Nuovo Messico e in Sudamerica.

La bomba scoppiava nell’ottobre del 1975, con la pubblicazione sulle pagine del The Detroit Free Press di un articolo dal titolo “Latin Sex Film Ends With Actual Killing”. Alimentato da una fonte ritenuta attendibile, l’articolo sosteneva che da qualche parte negli States fosse avvenuta una visione privata di 8 filmini snuff, costata ai pochi astanti la modica cifra di 200 dollari a testa. L’intervento dell’FBI, diventato a quel punto inevitabile, non cavò alcun ragno dal buco: l’informazione era un bluff. Stuzzicato da queste voci, l’editore della rivista per adulti Screw, Al Goldstein, propose un premio di 100.000 dollari per chiunque fosse stato in grado di recuperare un filmino di questo genere realizzato negli Stati Uniti e destinato al suo stesso mercato nero; nessuno riscattò la posta. Tornando a Slaughter, nel gennaio del 1976 faceva la sua comparsa in un cinema di Indianapolis un film laconicamente intitolato Snuff, la cui premessa era quella di contenere vere immagini di morte; tra i 12 ignari spettatori presenti in sala il giorno della prima, sedettero anche due agenti speciali dell’FBI, accompagnati da un patologo; il rapporto dell’indagine fu anche in questo caso insoddisfacente: trattavasi di una messinscena. Solo in un secondo momento si sarebbe scoperto che Snuff era un rimpasto del già citato Slaughter, un filmetto sulle gesta di una gang ispirata a quella di Charles Manson, cui era stata aggiunta una sequenza di morte girata a bella posta (da chi, però? Killing for Culture citava il regista hard Carter Stevens, mentre altre fonti pensavano a Simon Nuchtern…), ma a crederlo un vero snuff continuarono a essere in molti. Altri autori, intanto, si stavano buttando sull’argomento snuff.

Sul fronte italiano, Luigi Scattini ipotizzava con il suo Blue nude (1976) un mercato parallelo a quello dei pornofilm; la scelta di rappresentare la morte durante le riprese di un film come un fatto accidentale, traeva fondamento da una notizia pubblicata sul Messaggero nell’ottobre del ‘75, relativa a un incidente similare accaduto su un set a luci rosse. Altra dimensione quella congegnata da Joe D’Amato per il suo Emanuelle in America (1977): qui lo snuff appariva alla stregua di un Sacro Graal, alla cui ricerca si gettava l’implacabile sexy-eroina. Alla maniera di Scattini, l’americano Hardcore (1978) di Paul Schrader confinava il discorso a margine di una discesa “nell’inferno” delle luci rosse, pur attenendosi con maggiore fedeltà ai dettami della leggenda; nel suo caso lo snuff sarebbe stato “l’altare del sacrificio” di una ragazzina sfruttata dall’industria dei pornofilm. Presto l’argomento avrebbe offerto spunto anche ad alcune derive concettuali, tra cui quella di Cannibal Holocaust (1979). Non propriamente un film sugli snuff, il film di Ruggero Deodato rappresentava una selvaggia riflessione sulla sete di sensazionalismo dei canali d’informazione; nell’atto di denunciare questa nevrosi attraverso immagini di morte e devastazione, il lungometraggio travalicava i limiti della messinscena con una serie di violenze gratuite ai danni di animali indifesi, trasformandosi esso stesso in un disturbante apologo dal sapore snuff. Ugualmente in bilico tra real thing e bramosie massmediatiche, Videodrome (1983) di David Cronemberg profetizzava una cable-tv per adulti dove le programmazioni si sarebbero spinte sempre più oltre. Altri film reinterpretarono l’argomento negli anni a seguire in forma di dichiarata fiction, dando luogo a risultati spesso interessanti; nessuno di questi, tuttavia, avrebbe eguagliato la misteriosa serie dei Guinea Pig, avviata nel 1985 dal produttore giapponese Satoru Ogara coadiuvato dal disegnatore underground Hideshi Hino. L’idea motrice era stata una sola: rappresentare il peggio del peggio, dando al prodotto una parvenza di clandestinità e privandolo letteralmente di qualsiasi giustificazione o significato. L’apoteosi, per etica ed estetica, di un vero snuff. (Originariamente pubblicato in Nocturno nr. 4, 2002)